ANDARSENE O RESTARE? di Diego BRIGNOLI

“Parfois résister c’est rester, parfois résister c’est partir. Par fidélité à soi, à nous. Pour le dernier mot à l’éthique et au droit.” Nel PD verbanese le dimissioni del Segretario aprono una nuova fase, complessa e delicata. Non so bene se e come affrontarla, soprattutto se  ne valga (ancora) la pena. Ho certezza però che le antiche modalità abbiano mostrato i loro limiti.

“A volte resistere significa restare, a volte significa andare via. Per fedeltà verso se stessi, verso di noi. Per dare l’ultima parola all’etica e al diritto”. Con questo tweet Christiane Taubira ha commentato le sue dimissioni dalla carica di Ministro della Giustizia francese.

L’intenzione del Presidente François Hollande di proporre la revoca della nazionalità francese ai cittadini con doppia cittadinanza, nati in Francia e colpevoli di reati terroristici, non le era affatto piaciuta, non ha fatto nulla per nasconderlo, anzi si è opposta fortemente fino ad andarsene.

Ma lasciamo la Ministra francese e i suoi tweet e veniamo a noi.

A volte resistere significa andare via …  Lo Duca  e Brezza se ne sono andati, come fece Tradigo, come ho fatto io. Ognuno con le proprie motivazioni più o meno ammesse, più o meno rese pubbliche. Per quanto mi riguarda avevo a suo tempo deciso di limitarmi alle ragioni giudiziarie. Non erano le sole; era chiaro a tutti.

Allora come oggi ero e sono ben consapevole della delicatezza di ruolo e posizione che comporta la Presidenza del Consiglio Comunale,  sempre in bilico tra  tutela dei diritti di tutti,  rispetto dei regolamenti e garanzia del diritto-dovere di amministrare della maggioranza. Un compito delicato, talvolta in contrasto con la personale libertà di giudizio. Sì, perché al proprio giudizio, alla propria libertà di pensiero, spesso, troppo spesso, occorre anteporre l’appartenenza, il rispetto della regola non scritta di fedeltà, il dovere di dare sostegno alle scelte della maggioranza.

Forse perché inesorabilmente appartengo alla “vecchia guardia”, o forse perché ben diversa è la mia concezione di politica e di amministrazione,  mi risultano di difficile comprensione le modalità amministrative che contraddistinguono il “nuovo”(?) modo di governare e, per quel che ci riguarda più da vicino, di amministrare. Un pressoché totale esautoramento, e quindi della funzione di controllo e indirizzo,  delle assemblee elettive  (Parlamento o Consiglio Comunale) a favore di un’abnorme concentrazione di potere nelle mani del Premier o del Sindaco; la marginalizzazione delle forme organizzate di elaborazione politica; la dissoluzione del ruolo dei partiti come strumento di formazione della classe politica e la loro trasformazione  in  una sorta di marchio, un  brand del quale fregiarsi in occasione delle elezioni per poi impadronirsene tentando la trasformazione in partito personale; il decisionismo del “fare da soli”, in risposta al mai sopito sentimento di bisogno di “uomo forte”; il convincimento di dover rispondere solo ai cittadini elettori, confidando nel quanto mai effimero sostegno del consenso popolare.

Un modello che umilia l’elemento che considero irrinunciabile soprattutto nell’amministrazione locale:  il senso  di comunità, fattore trainante di una sana amministrazione.

Sull’altare della governabilità, del cambiamento, della decisione e dell’azione rapida, tradotte peraltro il più delle volte in annuncio immediatamente diffuso attraverso i media,  vengono immolate rappresentanza, partecipazione, condivisione, dibattito. Personalismo, decisionismo, populismo trionfano e rimane spazio solamente per un’accettazione acritica e passiva, quando non surrettiziamente entusiastica, mentre  la  critica viene immancabilmente  relegata all’espressione di gufi e cassandre (quante volte lo abbiamo sentito?), rancorosi nostalgici del passato che non trovano di meglio che remare contro. Accuse che spesso e volentieri sono state mosse anche a me, talvolta velatamente, talvolta molto apertamente. Molti ancora interpretano le mie posizioni di criticità frutto dell’esito delle primarie e del rancore derivatone; dimenticando evidentemente la mia assunzione di responsabilità quando accettai  la candidatura e il ruolo di capolista, la mia offerta di collaborazione (ovviamente respinta).  Ho fatto proposte, sollevato perplessità e dubbi, ma alla fine, tranne un paio di volte, ho sempre votato pur se obtorto collo rispettando le scelte della maggioranza. Mi sono pure prestato a stemperare qualche asperità e cercato di mantenermi equidistante nel ruolo di presidente anche se non mi sono mancate le critiche sia dalla maggioranza che dall’opposizione. Ma tutto questo conta poco, in fondo si tratta solo di punti di vista personali e di (quasi) normale dialettica politica, anche se un po’ meno seria di quando ancora esisteva un’etica.

Mala tempora currunt. Tempi in cui un partito che si dice democratico abbandona la lealtà e sdogana la scorrettezza con quel famoso “Enrico stai sereno”: una vergogna, per  Renzi e per il partito di cui è segretario, un pericoloso precedente,  già troppe volte preso a modello. Tempi in cui il PD vira tristemente verso il PdR (Partito di Renzi) o l’anacronistico PdN (Partito della Nazione), imbarcando discutibili sostenitori come Verdini.

… andare via. Per fedeltà verso se stessi, verso di noi. Per dare l’ultima parola all’etica e al diritto.

Per  carità, le motivazioni della ministra Taubira, il tema delle libertà personali da coniugare con la necessità di assicurare la sicurezza a fronte della minaccia del terrorismo, stanno su di un piano ben diverso.  Non sono certo depositario di etica e diritto; ma quello di rimanere  fedeli a se stessi è un irrinunciabile dovere morale. Come riuscirci è una scommessa, una difficile scelta anche  personale, intima e privata. Da un lato le scelte amministrative, appannaggio e responsabilità di chi siede in Consiglio Comunale; dall’altro le scelte politiche, responsabilità di forze più o meno organizzate, partiti o movimenti che siano.

Tutto pare andare nella direzione opposta,  ma credo ci sia ancora bisogno di Politica, Partiti, Partecipazione, Ideologie, Identità, Sentimenti, Etica e Diritto. Sogni e speranze. Non so quanto realizzabili.   In ogni caso occorrerà coraggio e una forte dose di discontinuità. Ad ogni livello.

Nel PD verbanese le dimissioni del Segretario aprono una nuova fase, complessa e delicata. Non so bene se e come affrontarla, soprattutto se  ne valga (ancora) la pena. Ho certezza però che le antiche modalità abbiano mostrato i loro limiti. Non è difficile immaginare che sia iniziato l’abituale “assalto alla diligenza”, fatto di caccia alle tessere, per potersi presentare al tavolo congressuale con la forza dei numeri (le truppe cammellate si diceva un tempo)  in grado di condizionare il dibattito e il confronto,  ovvero di imporre la propria posizione indipendentemente dai risultati. Raccogliere poche decine di persone disposte a tesserarsi all’ultimo momento, votare al congresso e poi sparire;  un film già troppe volte visto che non ho voglia di rivedere ancora. Non più.  I prossimi giorni saranno decisivi per capire se la volontà generale è quella di confrontarsi o di contarsi, di comprendere o di prevalere, nonostante la deriva nazionale in bilico tra PdR e PdN. Allora deciderò se rinnovare l’iscrizione, se partecipare o no, se restare per resistere o per resistere andarmene.

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2 risposte a ANDARSENE O RESTARE? di Diego BRIGNOLI

  1. Silvia scrive:

    Chapeau, Diego. Per l’analisi lucida e disincantata, per l’onestà intellettuale. Non condivido invece i voti obtorto collo, perché alla fine credo che si debba agire in accordo con la propria coscienza e non con la maggioranza del partito. Se le scelte condivisibili vengono a mancare, è meglio andarsene. La modalità vecchia a mio parere è proprio la fedeltà al partito, qualunque cosa faccia, ma questa è una cosa che non funziona più. Il PD non è il PCI di Berlinguer, anche se molti ancora si illudono, e non vedo personaggi di grande statura e dignità. Non ho risposte né soluzioni. Osservo, rifletto, cerco di trarre le mie conclusioni. Sono tempi strani e difficili. ti auguro di fare la scelta più giusta per te. Un caro saluto

  2. Clerval scrive:

    Diego ne fa una storia personale. Non vale scansarla negandola. E’ tutto l’articolo calibrato su se stesso. Tuttavia sarebbe incompreso ad un attento osservatore locale e nazionale del PD, negare il problema che comunque, pone. Le insopportazioni personali di Diego e Fassina interessano a nessuno (?). Il PdR è solo un intercalazione alla rivolta al decisionista. Sottovalutare però, che il progetto del PdN abbia una valenza politica con la quale occorrerà confrontarsi sarebbe limitativo della situazione in cui ci troviamo. In uno splendido articolo sulla Stampa, Gianni Riotta, partendo dalla vera essenza del trasformismo ‘800 di De Pretis offre la seguente interpretazione: siamo proprio certi che di fronte al populismo lepenista di Salvini; all’avventurismo delle 5 stelle; alla crisi definitiva del berlusconismo; non sia proprio il PdN l’antidoto? Piuttosto che il raduno a sinistra per una alleanza mai maggioritaria in Italia? Renzi ha inserito, il PD in una alleanza socialdemocratica in Europa; ha ridato vita alle feste nazional popolari dell’Unità, divenuta un giornale riapparso in edicola e di buona fattura giornalistica, tenta di ricostruire l’idea dell’EU di Spinelli, Rossi e Colorni, ecc. Piuttosto che inseguire le dissimulazione della vicende politiche personali dell’ex Presidente del Consiglio di VB, sarebbe più utile alla ns opinione pubblica la comprensione dell’avvenire politico del ns Paese e della città. Cosa farebbe il PD locale nel caso che il progetto del PdN renziano procedesse con successo? Come a livello nazionale per Verdini, c’è qualche avvisaglia in città dell’arrivo di qualche centrista? Anche in Piemonte? Pensiamo all’invito, esplicito, di Vietti, un politico di tutto rispetto; e persino di Ghigo, a Fassino perché faccia a TO una lista di questo tipo per le amministrative torinesi. Coraggio, ragazzi, ne vedremo delle belle!

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