GIULIO CESARE RATTAZZI. LA PARABOLA PERFETTA DI UNA MILITANZA di Claudio ZANOTTI

Una parabola perfetta, che ha percorso l’arco lunghissimo di un cinquantennio. Una visione lucida e ambiziosa in grado di sfidare e di resistere ai decenni; la fatica umile della sua diuturna incarnazione nei tornanti stretti ma esaltanti della democrazia; il confronto politico serrato come potente propellente delle scelte amministrative, anche di quelle più delicate e controverse

La notizia della morte di Giulio Cesare Rattazzi si è abbattuta sulla nostra città con il carico insostenibile di dolore degli eventi che, pur temuti, vorremmo poter differire ad un tempo indistinto e indeterminato. A un domani remoto e inafferrabile. E invece, a pochi mesi dalla morte di un’altra figura costitutiva della civitas verbanese, don Giuseppe Cacciami,  dobbiamo ineluttabilmente accettare la scomparsa di Gege Rattazzi.

Di una personalità così ricca, impegnativa e poliedrica è difficile – forse impossibile – tracciare un profilo che abbia la pretesa della completezza. Ma la straordinaria fecondità della sua azione politico-amministrativa nella nostra città rende forse più agevole una prima, sia pur provvisoria, testimonianza. Rattazzi è stato uno degli interpreti più brillanti e più operosi della lunga stagione del cattolicesimo democratico verbanese, cresciuto, plasmato e ispirato da colui che per larga parte del ‘900  ne è stato il naturale e indiscusso riferimento politico e ideale: l’avvocato Natale Menotti.

Negli anni ’60, dopo il debutto in Consiglio Comunale a 24 anni, Rattazzi ha offerto un contributo essenziale alla definizione di quella visione progettuale della città che, divenuta programma amministrativo con il primo Centrosinistra nel ’64, ha fecondato e ispirato la politica verbanese almeno sino alle soglie degli anni ’90. Negli anni ’70, dopo la traumatica lacerazione che portò Rattazzi e altri giovani amministratori fuori dalla Dc, questa visione progettuale ha dispiegato tutta la sua forza in una stagione di scelte amministrative, che è persino difficile enumerare con piena esaustività: nacquero allora i grandi servizi sociali (gli asili-nido e le materne, l’assistenza sociale e domiciliare, il Centro Socio-Formativo, il “tempo pieno” delle scuole elementari delle frazioni popolari e operaie, la biblioteca civica), l’edilizia residenziale pubblica a Sant’Anna, le grandi acquisizioni patrimoniali dirette (Villa Maioni, Villa Olimpia, gli insediamenti industriali dismessi..) o indirette (l’estinzione degli Enti Morali e il trasferimento del loro patrimonio immobiliare al Comune), la realizzazioni di importanti opere pubbliche attraverso la politica dei mutui, la grande stagione dei servizi sovracomunali (il Consorzio Basso Toce, la Saia, l’Aspan, il Cisp, il Piano Regolatore Intercomunale, i consorzi per la depurazione delle acque..). Nel decennio successivo Rattazzi è uno dei protagonisti sulla scena politica locale della competizione incrociata della sinistra comunista con il partito socialista e la dc, che – pur nell’asprezza del conflitto – è capace di trovare le ragioni superiori (e vincenti) di convergenza nei comuni obiettivi della nuova provincia (arriverà tra il ’90 e il ’92) e della ripresa produttiva di Acetati e Italpet dopo la chiusura di Montefibre. E coglie con lungimiranza (s’era nell’85) la necessità dare spazio e di far crescere nel cuore dell’istituzione municipale una nuova leva di amministratori. Gli anni ’90, segnati dalla  “tangentopoli” locale e dalla crisi dell’ultima Giunta socialcomunista, nella quale era tornato a occuparsi del “suo” assessorato, quello al Bilancio e alle Finanze, vedono il suo definitivo trasferimento a Torino, dove torna a guardare con interesse prima al breve tentativo del ricominciamento della dc di Mino Martinazzoli e poi all’esperienze del Partito Popolare, della Margherita e del Partito Democratico, entrando per due volte in Consiglio Comunale nelle maggioranze dei sindaci Chiamparino e Fassino.

Una parabola perfetta, che ha percorso l’arco lunghissimo di un cinquantennio. Una visione lucida e ambiziosa in grado di sfidare e di resistere ai decenni; la fatica umile della sua diuturna incarnazione nei tornanti stretti ma esaltanti della democrazia (compromesso nobile o mediazione alta, l’avrebbe chiamata Gege); il confronto politico serrato (questo invece l’avrebbe chiamato “dialettica”) come potente propellente delle scelte amministrative, anche di quelle più delicate e controverse; la ragionata consapevolezza di una fase politica che si chiude e di un’altra che si può aprire; la saggezza di riconoscere che c’è un tempo per ogni cosa e che l’inalterata persistenza nel tempo di  ciò che abbiamo costruito s’ergerà a testimone del nostro valore.

Giulio Cesare Rattazzi è stato per molti decenni un politico indipendente. Ma è stato tutt’altro che solo. La cifra della sua testimonianza ideale è tutta nel segno della comunità e della contaminazione. La comunità è riconoscibile in quella schiera d’uomini che hanno accompagnato – assecondandola e talvolta contrastandola – la sua lunga militanza: i cattolici democratici e i democratici cristiani di Natale Menotti e Iginio Fabbri, di Pietro Della Rossa e di Giovanni Bianchi, di Giuseppe Lomazzi e di Sergio Bocci, di Maria Teresa Bellentani e di Giuseppe Ravasio, di Mario Piola e di Giampiero Bertella. La comunità umana e intellettuale del Circolo “Il Verbano”, il cenacolo di giovani entusiasti e appassionati che intorno a don Giuseppe Cacciami ha fecondato come nessun altro la politica verbanese nel cuore degli anni Sessanta. Nella temperie inquieta e vitale del ’68 Rattazzi matura la scelta della militanza “a sinistra”. Candidato al Parlamento per la Dc  nel ’68, ottiene un vasto e diffuso consenso popolare, che replica alle “Comunali” del 1970. Le tensioni sociali e politiche, fortissime in quegli anni, spingono Rattazzi ed altri giovani amministratori fuori e oltre la Dc, sino all’approdo al Movimento Politico dei Lavoratori di Livio Labor. Si rafforza in questo clima la sua attitudine alla contaminazione: all’interno della cultura politica della sinistra socialista e comunista verbanese, con la quale inizia un lungo sodalizio “dialettico”, Rattazzi porta tutta la ricchezza della sua precedenza militanza cattolico-democratica e democristiana. Sono anche anni di conflitti aspri e di isolamento, che la storia s’incaricherà di riassorbire quando, tra il 1993 e il 1995, dalla scomposizione e dalla ricomposizione del quadro politico nazionale nasceranno l’Ulivo di Prodi e un nuovo Centrosinistra, all’interno dei quali convergeranno le tradizioni del riformismo socialista, post-comunista, cattolico-democratico e laico. Identità, comunità, contaminazione.

L’esistenza di Gege Rattazzi non è stata solo politica. Anzi, possiamo affermare oggi con perfetta sicurezza che la sua azione a servizio delle due poleis – quella di nascita e quella d’adozione professionale – non ha nulla a che vedere con la “casta” e i suoi privilegi. Laureato in Fisica, subito insegnante e giovane preside della più grande scuola cittadina sino al ’77, Rattazzi ha trasfuso nella direzione delle sue due scuole (il “Cobianchi” e l'”Avogadro” di Torino) le stesse qualità che ne hanno ispirato l’attività politica: lungimiranza, passione, lucidità, determinazione, autorevolezza, spirito di servizio. La scuola è stata parte costitutiva della sua vita e fonte del suo sostentamento. E della politica ha conosciuto la fatica di amministrare un Municipio, non il privilegio di ricoprire un lautamente remunerato scranno parlamentare. Per questa ragione oggi sentiamo di dovergli un sovrappiù di ammirazione e di riconoscenza.

Rileggo le parole che ho scritto e ne avverto la parzialità e l’insufficienza a dare conto adeguatamente di una personalità così ricca. Ma la scorza ruvida del ceppo dei Rattazzi di Suna, al quale entrambi apparteniamo, m’impedisce d’andare oltre. Un ceppo solido e orgoglioso, che spesso nasconde un’indole riservata e una remota timidezza. Gege Rattazzi ha intensamente amato la sua città: un amore filtrato dall’intelligenza e mediato dalla ragione, perchè si mostrasse nella perfezione della finalizzazione e nella ricchezza delle realizzazioni. Un amore operoso, che fuggisse la tentazione della retorica sonorità e della facile mozione degli affetti.

Amare la propria comunità, servendola nelle opere. E’ stata la vita di Giulio Cesare Rattazzi.

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