25 aprile. Festa della Liberazione

Orazioni in occasione della Festa della Liberazione 2005, 2006, 2007, 2008.

25 aprile 2005

Sento di rivolgermi a voi, cari concittadini, con assoluta semplicità e – vi prego di credermi – con accoramento e palpitazione in questa solenne giornata nella quale celebriamo i sessant’anni dell’evento cui dobbiamo la libertà che oggi, qui, sperimentiamo. E ringrazio ciascuno di voi per la presenza vasta, qualificata e consapevole, che affianca quella delle autorità civili e militari, la cui sobria, discreta e continua vicinanza ci conforta perché rende evidente l’adesione delle istituzioni ai valori fondanti della lotta di Liberazione e della Resistenza, che radicano la nostra democrazia.

Un ringraziamento anche ai coloro che – con un’espressione forse un poco desueta – mi sento di chiamare “rappresentanti del popolo”: e cioè gli eletti nelle istituzioni rappresentative, i consiglieri regionali, i consiglieri provinciali e comunali, il Presidente della Provincia: essi incarnano qui e ora, con la loro presenza, la democrazia che il 25 aprile del ’45 ci è stata riconsegnata e che trova nell’espressione del voto libero e segreto dei cittadini – la sovranità popolare – la sua regola ad un tempo semplice e fondante.

E poi un grazie particolare alle associazioni dei partigiani e alle associazioni d’arma, cui appartennero gli uomini – militari e no – che tra il settembre ’43 e la primavera del ’45 seppero scegliere la parte giusta, rivelando così il profondo sentimento di libertà e di democrazia che animava la popolazione e resisteva dentro l’esercito, quasi a rivelare dell’una e dell’altro in quelle ore il volto più autentico.

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Il tempo trascorso dagli eventi che celebriamo e il naturale riassorbimento della concitazione emotiva e del coinvolgimento diretto di coloro che li vissero da protagonisti mi consigliano di derubricare il mio intervento da solenne “orazione” a più semplice e piana “riflessione” che desidero condividere con voi scandendola in quattro tempi.

Il primo tempo ha l’ambizione di riconsiderare la qualità e il significato di una ricorrenza che da sessant’anni celebriamo e che l’anniversario decennale offre naturalmente ad un bilancio ragionato. A me sembra che di poter distinguere due tappe. La prima, durata 45 anni (dal dopoguerra al 1990), ci consegna una ricorrenza celebrata tenendo ben salde le ragioni di un’unità che andava oltre che contingenze politiche del momento. Si può motivatamente affermare che in tutto questo ampio arco di tempo la memoria del 25 aprile è stata condivisa. E lo è stata, paradossalmente, proprio dentro una dialettica politica fatta di radicali contrapposizioni ideologiche e persino “di sistema”, ben rappresentate dalla divisione del mondo in due blocchi inconciliabili e contrapposti. Ciò nonostante, grazie all’azione lungimirante e robusta di sintesi fatta dalle grandi forze politiche, sindacali e associative allora presenti e operanti nel corpo stesso della nazione, le ragioni dell’unità hanno saputo prevalere in un tempo di divisione. E di quale divisione! Ricordiamo ancora la radicalizzazione di un confronto-scontro che poneva su un versante il tema della Resistenza tradita da un supposto continuismo (di uomini, di strutture, di articolazioni amministrative, di mentalità) tra l’Italia fascista e l’Italia repubblicana, e sull’altro versante il tema della Resistenza sequestrata da uno schieramento ideologico, da un partito, a discapito di altri schieramenti ideologici e di altri partiti. Ma anche nei frangenti più duri e nella polemica ideologica più forte non è mai venuto meno nei diversi e contrapposti schieramenti il convincimento che Resistenza e Liberazione fossero gli eventi fondativi della Repubblica, luoghi unificanti del nostro sentimento di identità nazionale attraverso il riconoscimento e l’attribuzione del torto e della ragione come azione propedeutica e indispensabile al processo di riconciliazione tra vincitori e vinti.

La seconda tappa è invece tutta di quest’ultimo quindicennio, nel corso del quale – pur a fronte del venir meno della contrapposizione ideologica e di sistema determinata dalla rivoluzione del 1989 – la memoria della Liberazione ha cessato di essere memoria condivisa e ha iniziato ad essere una memoria larvatamente controversa. Abbiamo così sperimentato il paradosso di assistere al graduale smarrimento della condivisione della memoria della Resistenza proprio nel tempo in cui venivano radicalmente meno le ragioni di opposizione ideologico-politica che quella condivisione avrebbero potuto minare. Come ha potuto e come può accadere ciò? Forse l’interesse a ridimensionare l’evento resistenziale e la lotta di liberazione per confondere il torto e la ragione e ridurre il biennio ’43-’45 a una indistinta, sciagurata (e inspiegabile) stagione di guerra civile. Forse la volontà di esasperare “ex post” la contrapposizione ideologica per contingenti ragioni elettorali, senza misurare il danno che questa forzatura avrebbe inferto al sentimento di identità nazionale.

Il secondo tempo di questa riflessione è invece dedicato al magistero provvidenziale che in questo quindicennio ci è stato consegnato dalle massime istituzioni della Repubblica, i Presidenti Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi. A fronte della debolezza del sistema politico, Scalfaro e Ciampi hanno mantenuto ferme alcune certezze. Al primo dobbiamo la difesa rocciosa della Resistenza e della Liberazione come fattori generativi della Carta Costituzionale e l’affermazione della Costituzione come frutto diretto degli ideali della Resistenza: cosicché, per Scalfaro, oggi preservare la Costituzione nei suoi valori fondativi (unità nazionale, primato del Parlamento, equilibrio bilanciato dei poteri…) è tutt’uno con la difesa della resistenza e della Liberazione. Al Presidente Ciampi, il cui mandato entra in questi giorni nell’ultimo anno, dobbiamo invece l’insistente a coerente affermazione del senso patrio, che riconosce nel Risorgimento, dell’unificazione territoriale della nazione e della convinta adesione alla dimensione europea i tre pilastri di una storia ultrasecolare. Ma il Presidente Ciampi ci ha insegnato che il loro compimento è stato possibile solo grazie al riscatto nazionale operato dalla Resistenza, che ha determinato una provvidenziale discontinuità con il ventennio fascista, riconnettendo in organica e armoniosa continuità ideale periodi diversi della nostra storia nazionale. E grazie al magistero di Ciampi, grazie al quadro robusto di valori che la sua presidenza ci consegna, trovano senso – senza reticenze e omissioni – anche le pagine più problematiche e controverse della nostra storia recente, come ad esempio la temporanea dissoluzione dello Stato dopo l’otto settembre e la tragica vicenda del confine orientale, passato dall’occupazione militare del primo dopoguerra alla forzosa italianizzazione voluta dal fascismo, dalle pagine drammatiche della pulizia etnica affidata alle foibe, all’esodo senza speranza di chi – senza colpe – pagò la follia della guerra nazifascita.

Il terzo tempo investe direttamente l’attualità della nostra comune celebrazione, per la quale io intravedo tre rischi. Il primo risiede nella confusione delle responsabilità. Quando in Parlamento, è accaduto qualche settimana fa, vi è chi pensa di proporre una sorta di equiparazione tra le forze partigiane che si batterono per la liberazione del Paese e coloro che militarono sotto le insegne dell’esercito repubblichino di Salò, significa che si sta tentando di insinuare una lettura della storia che revoca in dubbio quella distinzione tra il torto e la ragione che in precedenza abbiamo evocato come presupposto imprescindibile di ogni duratura e sincera riconciliazione, di ogni ambizione a condividere la memoria. Il secondo rischio sta nella compensazione della memoria. Le recenti polemiche che anche in sede locale hanno accompagnato le manifestazioni per la Giornata del Ricordo non hanno fatto altre che confermare l’esistenza di una tentazione di opporre l’orrore delle foibe istriane all’orrore degli eccidi nazifascisti, quasi a voler suggerire una compensazione, un’elisione tra eventi uguali e contrari. Non è così: la tragedia del confine orientale e l’orrore delle foibe trovano ragione non in un’aberrante logica compensatrice, ma all’interno del quadro di valori resistenziali, antifascisti e antinazisti. Il terzo rischio può invece appartenere a chi, come noi, oggi celebra con solennità il 25 aprile. E’ il rischio della requisizione della Resistenza, cioè la tentazione – spesso inconsapevole – di stendere un recinto intorno a questa giornata per farne patrimonio di una sola parte, di una coalizione, di uno schieramento politico. Questa ricorrenza deve essere invece testardamente proposta come una festa di tutto il popolo italiano, senza recinti, senza discriminazioni: quando si affermasse la convinzione – e vi è chi purtroppo dissennatamente alimenta questa lettura distorta – che la ricorrenza del 25 aprile è celebrazione della memoria e dei valori di una sola parte del nostro popolo, in quel momento la ricorrenza cesserebbe di esistere.

Voglio infine dedicare il quarto tempo di questa riflessione alla nostra Liberazione, a quella che abbiamo conosciuto nel racconto di coloro che in questi luoghi l’hanno vissuta e sofferta. Il tempo affievolisce la memoria diretta dei protagonisti e dei testimoni. Per questo abbiamo bisogno di riannodare la nostra memoria ai luoghi, ai volti, ai nomi, alle storie di quanti hanno sacrificato la vita per noi. Dobbiamo cioè avere ben chiaro quando, dove, come e perché ragazzi non ancora ventenni hanno maturato la scelta di opporsi a un potere invasivo e minaccioso che li costringeva a una militanza avvertita come ripugnante. Abbiamo bisogno della concretezza dei loro volti e della familiarità dei loro nomi, che le lapidi, le fotografie sbiadite e gli oggetti posseduti ci rimandano ancora oggi. Abbiamo bisogno di riandare su quei luoghi per noi così ordinari e consueti (la strada  che da Unchio sale a Cossogno, la piazza Cavour, la foce del S. Giovanni, il cimitero di Cavandone, la curva della colonia Motta e, infine, il canale di Fondotoce) dove la morte ha incontrato partigiani e civili. Io ho la fortuna di conservare tra le carte di casa un quaderno che mio padre compilò a mo’ di diario privato tra l’inverno del ’43 e la primavera del ’44: pagina dopo pagina accanto alle notazioni personali (il numero delle sigarette fumate, i film visti, l’incontro forse non casuale con la graziosa compaesana, la giornata scolastica) si fanno strada considerazioni via via più meditate che nel breve volgere di qualche mese sosterranno la scelta di non rispondere all’arruolamento obbligatorio dei repubblichini e di scegliere la montagna e poi l’Ossola e infine l’internamento. Abbiamo bisogno di conoscere le ragioni di quelle militanze, perché non ne vada disperso il significato.

Chiudo questa riflessione, forse troppo lunga, con la parole di Mario Vernino, che ho ritrovato nel volume dedicato ai condannati a morte della Resistenza novarese. Artigliere, 25 anni, di Fara Novarese, è stato fucilato dai repubblichini nel Canavese. Il giorno della sua morte scrive ai familiari pochissime parole: “Carissimi, il 19 sono stato catturato dai reparti paracadutisti. Oggi, 22 marzo, sono fucilato. Non pensate a me, perché la mia coscienza è tranquilla”.

Non scrive altro, Mario Vernino; eppure tanto avrebbe potuto dire nell’ultimo giorno della sua vita ai suoi genitori. Ma tutto è raccolto nell’ultima frase: “Non pensate a me, perché la mia coscienza è tranquilla”.

E’ grazie alla coscienza tranquilla di Mario Vernino che noi possiamo celebrare anche oggi la festa del 25 aprile.

Claudio Zanotti, sindaco di Verbania

Verbania-Intra

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25 aprile 2006

Sento come immediato e naturale il dovere di rivolgere il mio saluto ai molti cittadini che anche oggi, a dispetto dell’inclemenza del tempo, sono convenuti in questo luogo così significativo per celebrare il senso e le ragioni del 61° anniversario della Liberazione. E insieme ai cittadini il mio saluto e il mio ringraziamento va alle autorità: innanzitutto a quelle che rappresentano le istituzioni democratiche, espressione della volontà popolare e della comunità locale: i rappresentanti del Comune, della Provincia, della Regione; un particolare saluto al nuovo rappresentante del Parlamento nazionale eletto poche settimane fa, che con noi oggi celebra questa ricorrenza: a nome della città gli auguriamo buon lavoro per l’alto incarico ricoperto.

Sono con noi anche oggi le autorità civili e militari, le associazioni combattentistiche e d’arma, le associazioni partigiane. E proprio con loro vorrei, iniziando questo mio intervento, ricordare la bella figura di Emilio Carganico, Presidente della sezione cittadina dell’Associazione Nazionale Alpini, scomparso solo dieci giorni fa: la sua naturale carica umana, la sua disponibilità, la sua carismatica operosità, l’altissimo senso delle istituzioni che lo animava e che ne guidava l’opera, restano vivissimi in noi tutti e di lui avvertiamo più fortemente l’assenza proprio in circostanze come queste, cui partecipava con assiduità insieme ai suoi alpini.

Le poche cose che voglio oggi condividere con voi non appartengono al genere un po’ enfatico della cosiddetta “orazione ufficiale”; piuttosto, intendo proporvi una riflessione meditata sul significato di fare memoria di un giorno come questo. Ma prima permettetemi di riepilogare con voi un anno – quello del sessantesimo anniversario della Liberazione – che davvero è stato straordinario: nell’arco di 12 mesi abbiamo ripercorso, rivivendole, le fasi più tragiche ed esaltanti della primavera del ’45, rievocando i martiri di Unchio, di Fondotoce, di Cavandone e tornando con la memoria ai giorni della battaglia di Intra; abbiamo consegnato in maniera definitiva alla venerazione della città le figure di Maria Peron, infermiera e “medico di Brigata” e di Nino Chiodini, partigiano, scrittore e ricercatore, dedicando loro la scuola elementare di Sant’Anna e il parco di Biganzolo; abbiamo ottenuto dal Ministro dell’Interno, grazie alla discreta, determinata e risolutiva azione del nostro Prefetto, dr. Rotondi, la medaglia d’oro al Merito Civile, come riconoscimento delle azioni compiute dalla popolazione di Verbania tra l’autunno del ’43 e la primavera del ’45 a sostegno della lotta partigiana; abbiamo vissuto la giornata che neppure osavamo sperare, quella dell’incontro con il Presidente della Repubblica, che il 4 ottobre ha abbracciato Verbania e la Provincia del Vco ai piedi della croce del Sacrario di Fondotoce, da lui definito in quell’occasione “luogo sacro della nazione”; da ultimo, ma non sembri irrilevante questo riferimento, le celebrazioni lo scorso febbraio per la “Giornata del Ricordo”, a memoria della tragedia del confine orientale e delle foibe istriane: accolta nella sa naturale sede, la Casa della Resistenza, anche questa celebrazione ha trovato adeguato e compiuto riconoscimento all’interno del quadro di valori della Resistenza e dell’antifascismo.

L’interrogativo che oggi ci poniamo è questo: come mantenere viva l’attualità di un evento che irrimediabilmente si allontana nel tempo? Una risposta non banale può forse venire da una riflessione sulle fasi della memoria che hanno via via accompagnato questo lungo sessantennio. All’inizio la memoria è stata quella della comunità. Il senso della scelta di quei giovani è rimasto naturalmente vivo e vitale sino a quando è stata presente e operante la comunità che ha direttamente vissuto quegli eventi. I nomi, i volti, la voce stessa di quei ragazzi si mantenevano reali e attuali tra coloro che li avevano conosciuti, ascoltati, incontrati; di loro la comunità sapeva tutto: la famiglia di provenienza, la scuola frequentata, il lavoro esercitato, le idealità coltivate, i valori condivisi, le speranze di un avvenire che la giovane età lasciava presagire lungo. Per questa ragione la memoria non aveva bisogno di altro che della concreta presenza di coloro che avevano condiviso la vita con i ragazzi della Resistenza, con i partigiani della Liberazione.

Quando la comunità ha via via mutato profilo e composizione, la memoria è passata ai testimoni. A costoro, che hanno ricevuto come un lascito prezioso dai compagni di lotta il compito di ricordare anche dopo il naturale dissolversi della comunità d’allora, noi dobbiamo l’affermazione delle idealità resistenziali durata sessant’anni; a costoro dobbiamo la meticolosa raccolta di testimonianze e di documenti, la realizzazione di centri di studio e di documentazione, la presenza indefessa sui luoghi del martirio e la parola nei giorni anniversari. Sono, costoro, uomini e donne che hanno raggiunto e superato gli ottant’anni e che hanno attraversato la seconda metà del ‘900 acquisendo sempre maggiore consapevolezza del ruolo di testimoni diretti.

E ora, celebrata la ricorrenza sessantennale, entriamo in una terza fase della memoria, quella che mi sento di definire come la memoria della ragione. A questa terza fase spetta il compito di tenere vivo il ricordo di quegli eventi dopo che la comunità originaria e i testimoni diretti hanno combattuto “la buona battaglia”. Tocca a questa terza fase prolungare nel tempo, nei decenni che verranno, il senso, i valori, l’attualità della lotta per la liberazione della nostra patria dalla dittatura fascista e dall’oppressione nazista. Oggi inizia questo tempo.

La ragione, cui è affidata da ora in avanti il compito del ricordo, deve evitare la deriva della memoria della Resistenza e della Liberazione in una generica mitologia. Perché nella deriva mitologica, che sradica gli eventi dalla storia e li consegna a una dimensione astratta e generica, gli uomini perdono il loro spessore e gli ideali perdono la loro attualità. Perché ciò non accada, è necessario operare in due direzioni.

La prima risiede nel rendere per sempre ai ragazzi e agli uomini di allora il loro spessore, la loro concretezza, la loro unicità e la loro originalità. Ci attende un lavoro, peraltro già ben avviato dai testimoni diretti, di scavo, di ricostruzione, di ricerca. Che ci riconsegni di tutti coloro che diedero la vita per la libertà il volto e il nome, la biografia esistenziale, la storia della loro famiglia, il profilo della loro comunità, il contenuto delle loro riflessioni affidate ai diari, alle lettere, alle confidenze. Di loro dobbiamo raccogliere tutto; nulla di ciò che stata la loro vita deve andare perso, perché domani saranno questi documenti a spiegare a chi verrà dopo di noi perchè vi sono stati uomini che hanno consapevolmente messo in gioco la loro vita per affermare il valore della libertà in un tempo in cui tutto sembrava irrimediabilmente perso.

Il secondo lavoro che ci attende sta nella consapevolezza che oggi il frutto più vero e più ricco della stagione della resistenza e della Liberazione risiede nella Costituzione repubblicana. Dobbiamo cioè salvare pr sempre gli ideali e i valori della Resistenza nel corpo della nazione, e il corpo della nazione è la Carta Costituzionale del 1948. In essa hanno trovato sintesi ed equilibrio, in un compromesso altissimo di coscienze, il sentimento democratico dell’Italia libera; in essa si sono riconosciute per sessant’anni le grandi correnti ideali del Paese, che pure si sono duramente combattute nel fisiologico esercizio della democrazia. La nazione italiana si fonda ancora oggi su quell’unità. Perciò non ho alcuna remora a dire con schiettezza che se la nostra Costituzione esprime l’unità vera della nazione, se essa rivela il compimento finale della grande epopea unificatrice del Risorgimento, se essa si fonda sulla centralità del Parlamento come espressione della sovranità popolare, se in essa trova riconoscimento il ruolo fondativo delle autonomie locali, ebbene non ha queste caratteristiche la modifica radicale e profonda della nostra Carta sulla quale tra poche settimane il popolo sarà chiamato ad esprimersi con il referendum confermativo.

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Voglio concludere queste brevi riflessioni lasciando, come mi è accaduto di fare lo scorso anno, la parola ai nostri martiri, ai condannati a morte della Resistenza novarese, le cui lettere estreme, pensate per il solo destinatario cui esse erano indirizzate, sono divenute patrimonio di tutti noi.

Giuseppe Bianchetti aveva 34 anni quando, 8 febbraio del ’44, venne fucilato al poligono di tiro di Novara. Era un operaio di Villadossola, estraneo al movimento partigiano, cui alcuni patrioti avevano affidato un milite tedesco ferito perché fosse portato al posto di medicazione. Così fece, avendone in cambio l’arresto e la condanna a morte. Scrive Bianchetti: “Caro fratello Giovanni…non posso nasconderti che tra mezz’ora sarò fucilato; però ti raccomando le mie bambine di dar loro il miglior aiuto possibile. Come tu sai che siamo cresciuti senza padre e così volle il destino anche per le mie bambine. Di una cosa ancora ti disturbo: di venire a Novara a prendere il mio paletò e ciò che resta”. Nella serena concretezza dell’ultima ora della sua vita, Giuseppe Bianchetti si pensa già morto e affida al fratello, oltre alle sue bambine, il paletò: ricchezza dei poveri, lascito estremo cui dedica le ultime righe della sua ultima lettera.

Anche Renato Molinari, di Novara, è un uomo di 34 anni, alpino, che dopo l’8 settembre sceglie la Resistenza, subisce la deportazione, fugge e si aggrega alla Resistenza francese della Costa Azzura per poi rientrare nelle formazioni partigiane piemontesi. Arrestato, condannato, fucilato. Scrive: “Carissimo zio, proprio mentre speravo di essere graziato, è venuta la condanna a morte. .. Ti sarò grato se potrai farmi avere una sepoltura cristiana, in modo che la mia famiglia possa riavere il mio corpo. Io vesto: giacca di fustagno, maglione marrone, pantaloni blu da sciatore, scarpe da casermaggio. Ho baffi e capelli ricci neri. Ti abbraccio. Renato”.

Nella concretezza umile del paletò di Giuseppe Bianchetti e della giacca di fustagno di Renato Molinari brilla il segno della superiorità morale dei resistenti e dei partigiani, grazie alla quale noi ancora oggi possiamo sperare che l’Italia viva!

Claudio Zanotti, sindaco di Verbania

Verbania-Intra

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25 aprile 2007

Anche quest’anno rivolgo, con semplicità e sincera amicizia, il saluto della città di Verbania ai rappresentanti eletti nelle istituzioni democratiche della Regione, della Provincia, del Comune:  essi incarnano la volontà popolare, che fonda la democrazia e l’autorità. Un ringraziamento raggiunga anche i vertici provinciali delle istituzioni statali, che idealmente saluto tutti nella persona del nostro Prefetto. E poi le Associazioni partigiane, combattentistiche e d’arma e tutti voi, che questa mattina siete convenuti di fronte a questo monumento dedicato alla memoria di tutti coloro che hanno dato la vita per la patria e per la libertà.

Desidero anche quest’anno articolare l’orazione ufficiale in forma di riflessione a voce alta, che condivido volentieri con tutti voi. Un anno fa auspicavo che, dopo la solenne celebrazione sessantennale del 2005, l’attualità dei valori della Resistenza fosse gradualmente affidata alla memoria delle generazioni, dopo essere vissuta nella memoria della comunità, cioè di coloro che avevano condiviso l’esistenza dei patrioti, e successivamente nella memoria dei testimoni diretti, che per decenni hanno dato voce agli eventi di cui sono stati protagonisti. Davvero mi sembra che questo “trasferimento della memoria” si sia avviato con sorprendente e consolante rapidità. Penso al lavoro intenso che nel corso degli ultimi mesi ha consentito la realizzazioni di vere e proprie opere d’ingegno come il film-documentario “Memoria di Trarego”, i cortometraggi di “Corti di Memoria” costruiti dai giovani all’interno del progetto “L’evoluzione nello sguardo” e il film “Stelle strappate” della scuola elementare di Torchiedo; davvero abbiamo assistito ad un ripensamento di eventi in un’ideale staffetta tra gli ormai anziani testimoni diretti e i giovani – studenti e non – più sensibili e appassionati. Queste opere sono importanti non solo per l’utilizzo sapiente di tecnologie innovative; in esse noi cogliamo sia lo sforzo di documentare storicamente, puntualmente, i fatti della nostra Resistenza, sia la capacità di rigenerare le emozioni facendo rivivere uomini e vicende. C’è infatti un nesso indissolubile di ragione e di sentimento, di cuore e di intelligenza, e grazie a questo nesso indissolubile la memoria di quegli eventi torna a parlare con vivida immediatezza a ciascuno di noi e impedisce che la vicenda resistenziale svapori nel mito e nella vuota retorica. Noi abbiamo di fronte un’impresa inedita per la nostra storia nazionale: dobbiamo cioè costruire una memoria che duri per le generazioni e rimandi incessantemente alla vicenda della Liberazione. E se domani dovessimo riconoscere che questa vicenda è diventata muta – e il suo mutismo potrebbe benissimo coesistere con il fragore di parole retoriche e roboanti, ma di vuota sonorità – avremmo più d’una ragione di preoccuparci: significherebbe infatti che è determinata una soluzione di continuità  nella nostra storia nazionale. E non sarà quella una pagina felice.

La seconda riflessione. Così come la memoria dei testimoni sta alimentando la memoria delle generazioni, si è avviato un processo di ripensamento convergente della storia resistenziale da parte delle forze politiche. E di ciò abbiamo avuto riscontri anche in sede locale. Nel 2005 denunciavo un triplice rischio: la confusione delle responsabilità (pensiamo alle polemiche sull’insensata volontà di equiparazione tra militi repubblichini e combattenti partigiani), la compensazione della memoria (ad esempio, la tentazione di opporre alla Giornata della Memoria dei lager nazisti alla Giornata del Ricordo delle foibe istriane), la requisizione della Resistenza (la tentazione di attribuire questo evento ad una sola parte politica e non a tutto il Paese). Oggi sta invece maturando una consapevolezza nuova, favorita anche dall’intensa e appassionata ricerca storiografica sulle vicende del fronte orientale, sul ruolo del nostro esercito nella Resistenza, sull’abisso di male assoluto rappresentato dai lager. Lo scorso 10 febbraio abbiamo celebrato la Giornata del Ricordo: in quell’occasione hanno parlato due deputati locali appartenenti l’uno ad Alleanza Nazionale e l’altra a Rifondazione Comunista: due parlamentari collocati ideologicamente e politicamente agli antipodi, dai quali abbiamo però ascoltato riflessioni meditate ed equilibrate, che sono il presupposto per una nuova e non configgente valutazione di una vicenda misconosciuta come quella del dramma consumatosi tra il settembre ’43 e maggio ’45 in Istria e Dalmazia. Se questo clima segnala una volontà autentica di riconoscere le ragioni profonde dei tragici fatti della Resistenza, è troppo sperare nella celebrazione del 25 aprile o dell’eccidio di Fondotoce il 20 di giugno con la presenza di tutti i rappresentanti delle forze politiche? Avremo così finalmente una Liberazione non più requisita, ma davvero di tutti.

Chiudo questa mia intervento proponendovi una riflessione su due vicende biografiche che riguardano nostri concittadini e che probabilmente suoneranno sorprendenti per molti tra voi. Il 15 novembre 1943 a Kalinovik il sottoufficiale Franco Verna, alpino del Battaglione “Intra” che dopo l’8 settembre aveva seguito il suo capitano Zavattaro Ardizzi scegliendo di combattere contro i nazisti, viene irrimediabilmente ferito in uno scontro a fuoco contro i tedeschi mentre si trova con un gruppo di partigiani iugoslavi. Questo atto di eroismo gli vale la medaglia d’argento al valor militare. Ora, è noto a noi tutti che Franco Verna ha militato per molti decenni a destra, ricoprendo il ruolo di consigliere comunale e provinciale eletto nelle liste del Movimento Sociale. Ed è stata una militanza netta, determinata, rigorosa, nello stile dell’alpino che è stato. Ma non dobbiamo dimenticare che questa militanza politica a destra resta comunque radicata in una scelta di libertà e di democrazia che il giovane sottoufficiale Franco Verna ha saputo compiere nel momento più delicato e drammatico della guerra, rifiutandosi di combattere con i repubblichini di Salò a fianco dei nazisti, ma scegliendo con gli alpini dell’“Intra” la lotta antinazista in terra di Iugoslavia.

Nel dicembre ’44 sulle montagne sopra Cicogna, e dunque a ridosso della città, il nostro “medico di Brigata” dell’ 85° Garibaldi, l’infermiera e medaglia di bronzo al valor militare Maria Peron ha allestito e gestisce il suo “ospedale”: grotte e ricoveri naturali dove assistere i partigiani feriti. Mario Fresa, partigiano, nome di battaglia “Freccia”, è stato trasportato sopra Cicogna dopo esser stato ferito a Intra; nell’infermeria improvvisata Maria Peron cura, insieme ai partigiani, anche due ufficiali delle Brigate Nere rimasti feriti in combattimento. “Freccia” e gli altri partigiani faticano a capire questa scelta e vorrebbero risolvere diversamente l’imbarazzante convivenza. Ma Maria Peron blocca sul nascere ogni protesta e cura fino al ristabilimento completo i due fascisti. Certo, Peron è infermiera e avverte come cogente e impegnativo il dovere di assistere comunque un ferito; ma è anche vero che Maria Peron pochi mesi prima ha assistito, nascosta, alla fucilazione di alcuni suoi ragazzi a Finero; ha scavato con le sue mani la terra che ricopriva la fossa comune dei 18 partigiani fucilati a Pogallo per tentarne il riconoscimento; ha saputo dell’orrenda strage dei 42 martiri di Fondotoce. Eppure, difende da un comprensibile sentimento di vendetta dei partigiani i militi fascisti affidati alle sue cure. E’ in questo gesto che noi misuriamo la superiorità morale e spirituale dei resistenti antifascisti; ed è grazie a questa superiorità morale che si alimentano – nel cuore di una guerra crudele – gesti di magnanimità e di generosità preziosissimi per ricostituire dopo la Liberazione le condizioni di un processo di riconciliazione nazionale.

In queste due biografie possiamo riconoscere le condizioni sulle quali fondare una celebrazione della Resistenza e della Liberazione che sia davvero una festa di tutti.

Come già negli scorsi anni, termino questa breve orazione lasciando che risuonino per noi le voci dei giovani patrioti che hanno dato la vita per la nostra libertà. Il 28 dicembre del ’43, nelle prime ore della giornata, a Novara vengono fucilati otto giovani ossolani catturati un mese e mezzo prima durante l’insurrezione di Villadossola. Sette di loro poco prima di morire scrivono poche righe di commiato. Sono ragazzi di vent’anni. Nelle ultime ore della loro brevissima esistenza scrivono alla mamma: perché sì, sono partigiani, sono patrioti e combattenti; ma sono prima di tutto ragazzi. E alla mamma chiedono perdono per le cattive azioni che hanno compiuto e per i dispiaceri arrecati dall’esuberanza giovanile. Sono lettere semplici, commoventi, struggenti. Sono eroi della libertà e sono ragazzi su cui incombe un destino misterioso, oscuro, inspiegabile.

Giuseppe Giudici ha 19 anni. Su una facciata a quadretti scrive: “Con grande dolore vi annuncio che è giunta l’ultima mia ora. Vi chiedo perdono di tutte le offese da me ricevute. Cari familiari, vi domando per piacere di tenere per mio ricordo quanto scritto in carcere a Novara. Lascerò una dottrina e tre magliette. Tenetele per mio ricordo………” E poche righe più sotto: “Nel tempo che ho scritto questa lettera è stato un pianto solo”

Resti scolpito nella nostra memoria il pianto di questo ragazzo. Perché anche nel pianto tenerissimo, sommesso e disperato di Giuseppe Giudici vive l’Italia.

Claudio Zanotti, sindaco di Verbania

Verbania-Intra

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25 Aprile 2008

Torno a ringraziare ancora una volta voi tutti oggi presenti alla celebrazione del sessantatreesimo anniversario del 25 aprile: come di consueto la presenza dei cittadini, dei rappresentanti del popolo eletti nelle istituzioni, dei responsabili degli uffici dello Stato operanti sul territorio della nostra provincia, delle associazioni combattentistiche, d’arma e partigiane rende visibile l’attenzione e la sensibilità di una comunità per i valori che questa ricorrenza ripropone. Ed è proprio il senso di questa giornata che ci interroga: il suo valore fondativo e costitutivo della nostra convivenza repubblicana e democratica offre sempre nuovi spunti alla nostra comune riflessione e rivela l’inesauribile vitalità di una celebrazione che ci aiuta a ripensare la nostra vicenda nazionale. In altre parole, misuriamo anche oggi la vitalità della celebrazione del 25 aprile, perché essa ci consente di riproporre una certa idea dell’Italia e di riconoscere la parte migliore di noi e della nostra storia più recente.

Non è questa certamente un’impresa agevole. La percezione che abbiamo oggi di noi stessi è spesso una percezione diffusa di amarezza e di frustrazione. Amarezza e frustrazione per le difficoltà oggettive nelle quali ci dibattiamo e per l’inadeguatezza della politica di offrire risposte di speranza e di fiducia, amarezza e frustrazione che si iscrivono in quella che qualche settimana fa Barbara Spinelli definiva la logica del risentimento. La paura degli accadimenti presenti e futuri sollecita – e per qualche verso impone – una sorta di ripiegamento difensivistico a tutela di quello che ci sembra di poter preservare e salvare di una condizione sociale che si manifesta come un processo di progressivo e inarrestabile decadimento. E’ questo un rischio gravissimo, perché amarezza, frustrazione, risentimento, ripiegamento generano un’attitudine a considerare il futuro come una scenario pericoloso e insidioso e il passato come una condizione cui guardare con la nostalgia di un tempo felice che non tornerà mai più. In sintesi, noi siamo pronti oggi a mitizzare il passato e a uccidere il futuro. Nulla più e meglio di questa attitudine negativa fotografa lo stato di decadimento e di ripiegamento che la nostra convivenza sociale sta subendo; un popolo dovrebbe invece coltivare l’attitudine opposta,o e cioè uccidere il passato e mitizzare il futuro. Badate: quando dico “uccidere il passato” non intendo certo sostenere la bontà di una rimozione totale di quanto sta alle nostre spalle; intendo invece dire che il passato va assunto e dominato con gli strumenti della consapevolezza e della ragione, sia nei suoi aspetti positivi sia in quelli negativi. “Uccidere il passato” significa non esserne succubi e respingere la tentazione di adagiarvisi di fronte alle difficoltà del presente. Così come la “mitizzazione del futuro” non è un’irrazionale fuga in avanti senza discernimento: è invece l’ottimistica consapevolezza che nel futuro, nel domani, s’annida non un oscuro pericolo che ci travolgerà ma un’opportunità che – grazie alla nostra passione e al nostro lavoro – renderà più bella, più ricca, più prospera, più giusta l’esistenza nostra e degli altri uomini. La parte più bella della nostra vita è quella che deve ancora giungere. Oggi invece la logica del risentimento genera frutti avvelenati, che ben si rivelano nell’enfatizzazione di quelli che chiamo i valori divisivi. Sono quei valori che si affermano per opposizione, che tendono a separare e non a unire, che vorrebbero essere una risposta a problemi grandi ma che si risolvono in risposte semplicistiche e falsamente rassicuranti, ridotte a slogan e a parole d’ordine destinate a mostrare già nel breve periodo un insuperabile limite intrinseco. Sono valori divisivi l’uso ideologico della religione, che dismette consapevolmente il suo afflato universalistico per ergersi a difesa di interessi particolari; l’enfatizzazione del recinto etnico come baluardo contro la diversità; la difesa oltranzistica del territorio, inteso come luogo perennemente minacciato; il riduzionismo localistico come formula magica per risolvere tutti i problemi che confusamente percepiamo; infine, la tentazione autarchica, ovvero l’illusione di potere risolvere da soli e semplicisticamente le difficoltà che ci assediano e ci spaventano. In ultima analisi, i valori divisivi sono perfettamente funzionali all’affermazione e al rafforzamento di un’identità chiusa.

Altra invece è la lezione che a noi proviene dal 25 aprile. Non la logica del risentimento, ma la logica del riscatto e della rinascita. Se noi consideriamo la vicenda della Liberazione, possiamo scorgere la tensione fortissima – e alla fine vincente – di affermare valori unitivi e non divisivi. Senza questa tensione unitiva, che pure doveva affermarsi dentro un quadro di lacerazione immane che la guerra e la divisione degli Italiani avevano prodotto, l’Italia non avrebbe conosciuto lo straordinario riscatto civile, morale, sociale, economico che ci ha accompagnato dal dopoguerra e per molti decenni sino ad oggi. Davvero allora il popolo italiano ha saputo uccidere il passato e abbracciare il futuro come orizzonte naturale del suo riscatto nazionale. Dall’evento della Liberazione sono dunque scaturiti valori alti, come sintesi armoniosa di idealità diverse. E d’altro canto l’identità di un popolo si deve costruire per addizione e non per sottrazione; e non potranno certo essere i valori divisivi sopra richiamati a renderci migliori.

Concludo questa riflessione a voce alta con un riferimento locale, che ci onora e ci inorgoglisce perché fa emergere naturalmente quell’idea d’Italia che nel 25 aprile riconosciamo. In questo momento, mentre io vi parlo, a Roma, all’Altare della Patria, Gianni Saffaglio riceve dalle mani del Presidente Giorgio Napolitano la medaglia d’oro al merito civile concessa a sua madre, Teresa Binda, fucilata dai nazisti a Beura Cardezza il 27 giugno 1944. Gianni Saffaglio è stato partigiano in Val Grande e lì sua madre lo raggiunse nel giugno del ’44; non potè rientrare a casa, a Suna, perché in quei giorni si scatenò il rastrellamento nazifascista. Teresa Binda seguì la colonna partigiana verso Finero e lì il figlio l’affidò a una famiglia di contadini. Tornata a Suna, Teresa fu catturata dai fascisti delle Brigate Nere nella sua casa di via Gioberti. Trasferita prima a Villa Caramora a Intra e poi alle carceri di Domodossola, fu picchiata, torturata e infine fucilata insieme al gappista intrese Otello Mapelli, al carabiniere-partigiano Cesare Badella e ad altri sei giovani cui fece da madre nel momento tragico e solenne della morte.

Ora, il sacrificio di mamma Teresa, rimasta presto vedova con quest’unico figlio, viene onorato dal Presidente della Repubblica all’Altare della Patria.  E noi aggiungiamo la sua memoria accanto a quella di uomini e donne a cui l’Amministrazione Comunale in questi ultimi anni ha voluto dedicare luoghi e spazi della nostra città, perché sia messa al riparo dall’oblìo quell’idea dell’Italia che ci ha fatto liberi: dell’infermiera “medico di Brigata” Maria Peron parla la scuola elementare di S. Anna; di Nino Chiovini, “Peppo”, parla il parco di Biganzolo. Dell’eroismo collettivo della città di Verbania parla la medaglia d’oro al merito civile che ho ricevuto dalle mani del Presidente Ciampi nell’ottobre del 2005; della dedizione della crocerossina Maria Vittoria Zeme dirà un  percorso che la Giunta si accinge a intitolarle a Pallanza.

La vicenda di questa donna mi è stata raccontata nelle settimane scorse da Gianni Saffaglio, Giannino, con grande lucidità, passione e dignità. Una testimonianza di grande valore. Prima di congedarsi, Giannino mi ha narrato un episodio apparentemente minimo, che – pur a distanza di moltissimi anni – lo commuoveva ancora profondamente. A Liberazione avvenuta, il giovane Saffaglio si trovava sul lungolago di Pallanza. Spaesato e confuso. Solo. Non possedeva altro che il moschetto, un paio di calzoni sdruciti e una camicia: i fascisti che avevano catturato Teresa non avevano certo risparmiato la sua casa e pochi beni che la donna possedeva. Lì, sul lungolago, Gianni Saffaglio viene chiamato da Ettore Franzi, commerciante d’abiti, e invitato nel negozio per potersi rivestire dopo un anno di vita alla macchia. Un episodio solo apparentemente minimo, dicevo: nell’intensa commozione di Saffaglio si rivela infatti la consapevolezza di un’esistenza che riprende dopo l’intermezzo tragico e straordinario della Resistenza. La nuova esistenza ricomincia da una reciproca riconoscenza: quella di un civile per il giovanissimo partigiano che tutto ha messo in gioco per la libertà dell’Italia e quella del partigiano per un uomo che con un gesto semplice e immediato di generosa solidarietà lo ha riaccolto nella comunità civile che proprio allora rinasceva.

In Gianni Saffaglio e in Ettore Franzi si rivela forse meglio che in molte parole quell’idea dell’Italia che costituisce ancora oggi il lascito preziosissimo del 25 aprile.

Claudio Zanotti, sindaco di Verbania

Verbania-Intra

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27 aprile 2008 – Orazione per la Festa della Liberazionea Ghiffa

La ricorrenza che oggi, pur posticipata di due giorni, insieme celebriamo in questo luogo cosi significativo per la storia della comunità di Ghiffa e così affollato di cittadini e di autorità, è divenuta una festa che ad un tempo unisce e divide. Essa è infatti un potente catalizzatore di umori, paure, speranze, risentimenti ed entusiasmi: riesce perciò difficile concepirla e viverla come la festa di tutti gli Italiani, perché le passioni che suscita risuonano ancora come dissonanti e in qualche caso addirittura tendenzialmente contrapposte.

Eppure la ricerca storiografica più consolidata e autorevole ha ormai ampiamente indagato i significati della vicenda resistenziale ed ha individuato nel 25 aprile l’evento culminante di una storia complessa e articolata. Nell’anno e mezzo intercorso tra 8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 non si è combattuta una guerra, ma tre guerre: in altre parole, si può affermate che la Resistenza è stata concepita e vissuta ad un tempo come una guerra patriottica combattuta tra italiani e tedeschi per la liberazione del suolo nazionale, come una guerra civile che ha opposto italiani a italiani e cioè fascisti ad antifascisti e infine come una  guerra di classe tra proletariato e borghesia. Ciascuna di queste guerre ha avuto i suoi protagonisti, i suoi luoghi e i suoi tempi, le sue efferatezze, le sue ragioni riconducibili alle motivazioni che avevano spinto ogni singolo resistente a scegliere l’opposizione al regime repubblichino e all’invasore nazista. La ricerca storica ha portato alla luce i caratteri propri di questo conflitto uno e triplice e li ha fatti emergere dentro la storia di quella che chiamiamo prima repubblica, quando erano presenti e attive sulla scena politica nazionale quelle forze politiche che traevano direttamente origine dai filoni ideali ai quali si richiamavano i protagonisti della Resistenza e che in qualche misura ne avevano orientato la militanza verso l’una, l’altra o l’altra ancora delle tre guerre sopra richiamate.

Quando poi tra il 1989 e il 1992 si è radicalmente mutato il quadro politico italiano con la scomparsa dei partiti tradizionali e il passaggio a quella che viene ormai definita seconda repubblica, sono venute meno le ragioni fortemente ideologiche che avevano contrapposto per oltre quarant’anni le forze politiche uscite dalla seconda guerra mondiale. Eppure, il venire meno della manifesta ed evidente contrapposizione ideologica non ha favorito la piena condivisione del 25 aprile come festa di tutti. Anzi, in questi quindici anni sono sembrate rinascere con ancora maggiore virulenza le contrapposizioni ideologiche e le tentazioni a sminuire, ridimensionare, circoscrivere e in qualche caso delegittimare la portata della Liberazione dal nazifascismo: paradossalmente, lo scontro ideologico si è riproposto con maggiore intensità proprio nel momento in cui scomparivano le grandi organizzazioni politico-sociali che avevano tenuto vive per decenni le ragioni di contrapposte ideologie.

E’ sorprendente che vengano oggi presentate come novità straordinarie e dirimenti vicende ed episodi ampiamente noti e adeguatamente indagati. Mi riferisco alla violenza rivoluzionaria e classista che nell’immediato dopoguerra ha seminato morte in diverse parti del Paese, mascherando spesso con ragioni ideologiche violenze private, vendette, regolamenti di conti, ruberie. Mi riferisco al documentato atteggiamento di continuismo afascista che si è mantenuto all’interno di molti corpi dello Stato nel passaggio dal regime di Mussolini a quello democratico del dopoguerra. Mi riferisco alla pratica della pavida rimozione che ha suggerito – e faccio solo due esempi, che credo comunque particolarmente significativi – al Ministro della Pubblica Istruzione nel 1955 di emanare una circolare nella quale si invitavano le scuole a ricordare il 25 aprile come anniversario di Guglielmo Marconi, non come data della Liberazione d’Italia; oppure quella che ha indotto gli organi dello Stato a trascurare omissivamente le richieste provenienti da più parti perché venisse dato il giusto riconoscimento postumo ad un eroe come Giovanni Palatucci, funzionario di polizia, che a Fiume tra il 1943 e il 1944 salvò centinaia di ebrei e di patrioti, morendo poi in campo di concentramento. Mi riferisco da ultimo alla realpolitik imposta nei lunghi decenni della guerra fredda, che fece passare sotto silenzio la vicenda drammatica del cosiddetto “confine orientale”, delle foibe istriane e dell’esodo giuliano-dalmata tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50 e derubricò a evento di limitata importanza la firma nel 1975 del Trattato di Osimo, con il quale veniva ceduta definitivamente alla Iugoslavia la cosiddetta “zona B” a ridosso di Trieste.

Concludo questa breve riflessione indicando quello che io ritengo sia oggi l’insegnamento più attuale della festa della Liberazione. Esso non risiede certo della enfatizzazione polemica di una contrapposizione ideologica che non ha più ragion d’essere e neppure nell’evocazione di fatti che si vorrebbero proporre come del tutto nuovi e sconosciuti, mentre fanno parte da decenni della consapevolezza più avvertita della nazione. L’attualità del 25 aprile risiede forse nel lascito morale, civile e ideale di quei ragazzi di vent’anni che hanno dovuto scegliere in una manciata di mesi da quale parte schierarsi e hanno scelto la parte della libertà e della democrazia. E’ bello rileggere i loro testi privati, le loro lettere, i loro diari e scoprire come sia maturata la decisione di mettere consapevolmente in gioco la vita pur di non tradire un ideale di libertà che prepotentemente si affacciava dopo vent’anni di dittatura fascista. La decisione d’allora ha poi guidato questi ragazzi, divenuti uomini, negli anni a venire e ha costituito un preziosissimo e straordinario giacimento di senso morale che ha sostenuto e fatto grande l’Italia sino ad oggi. Per noi quegli uomini e quelle donne hanno i volti e i nomi di Maria Peron, di Nino Chiovini, di Teresa Binda, al cui figlio – il partigiano Gianni Saffaglio – ha ricevuto due giorni fa dalle mani di Giorgio Napolitano la medaglia d’oro al merito civile in memoria della madre fucilata dai nazisti a Beura nel giugno del ‘44. E di tanti e tanti la cui memoria resta viva e integra, come quella dei ragazzi uccisi a Trarego il 25 febbraio del ’45 e sepolti in questo cimitero di Ghiffa.

Per noi, che ricopriamo una carica così significativa e importante come quella di Sindaco della nostra comunità, non vi è responsabilità più grande di quella di dare voce ai sentimenti di riconoscenza e di gratitudine di una popolazione che anno dopo anno, attraverso i suoi rappresentanti democraticamente eletti, riconosce nei ragazzi d’allora coloro che ci hanno restituito la libertà di cui ancora oggi godiamo.

Claudio Zanotti, sindaco di Verbania

San Maurizio di Ghiffa