27 gennaio. Giornata della Memoria

Giornata della Memoria 2007

24 gennaio 2007. Fondotoce, Casa della Resistenza

Vorrei scusarmi da subito con le autorità presenti oggi in questa sala – numerose e prestigiose – se mi rivolgerò, con le brevi considerazioni che mi accingo a svolgere, prevalentemente ai giovani studenti che oggi sono qui a celebrare con noi la Giornata della Memoria. D’altro canto, non posso dimenticare di essere innanzitutto un insegnante di Liceo, che anche questa mattina ha incontrato in classe i suoi allievi di Prima Scientifico. Ed ora incontro come Sindaco ragazzi di poco più grandi, molti dei quali provenienti dall’Istituto ove presto servizio.

Vi confesso che, prendendo la parola, avverto una grande preoccupazione. E cioè che  questa manifestazione, questa Giornata, possa in qualche modo essere da voi avvertita come la ripetizione stanca di un rito, di un atto dovuto, di un  gesto faticosamente imposto dal calendario delle celebrazioni ufficiali. Perché ciò non accada è indispensabile che sia da subito ben chiaro ove si radica l’attualità di questa celebrazione. E io credo che essa risieda in un doppio movimento dell’intelligenza.

Il primo si manifesta nello sforzo doloroso teso ad indagare in tutte le sue aberranti sfaccettature le molteplici manifestazioni di quello che mi sento di definire un male impossibile e indicibile. Impossibile, perché mai l’intelligenza umana avrebbe potuto immaginare un male assoluto come quello della Shoah, se esso non si fosse concretamente materializzato nell’universo concentrazionario nazista; indicibile, perché le parole per definirlo, circoscriverlo e giudicarlo sono state faticosamente trovate soltanto dopo la sua terribile epifania, nei sessanta e più anni che ci separano da quella tragica vicenda.

Il secondo movimento consiste invece nel riconoscere i punti di resistenza che pure si sono formati, sono esistiti e si sono tenacemente conservati nel cuore del male assoluto e che hanno preservato, nel tempo dell’aberrazione impossibile e indicibile, il senso dell’umano. Perché alla preservazione del senso dell’umano nel tempo del male assoluto dobbiamo non solo la vittoria della democrazia sul totalitarismo nazista, ma anche la capacità di elaborare razionalmente una vicenda concepita come impossibile dall’intelligenza e dalla ragione.

Una riflessione definitiva sul male assoluto della Shoah ci viene offerta da un testimone più volte evocato anche questa mattina: Primo Levi. Nel testo I sommersi i e salvati, che lo scrittore torinese dedica all’analisi, lucidissima e disperata, dell’universo concentrazionario nazista, Levi descrive l’incredibile normalità della logica, del criterio, del principio organizzatore del lager nazista: il principio della “massima afflizione”. Non era sufficiente sopprimere fisicamente e crudelmente il deportato: costui doveva essere sottoposto – prima dell’eliminazione fisica – alla massima afflizione possibile. E Levi ci propone un esempio terribile del principio di massima afflizione, senza peraltro ricorrere – come potremmo forse attenderci – alle forme più note e raccapriccianti di violenza: le camere a gas, i forni crematori, le impiccagioni, le fucilazioni, le torture. Levi evoca invece un gruppo di donne in quarantena a Treblinka nel canicolare luglio del ’44: a queste donne i nazisti impongono per diversi giorni un “lavoro”. Esso consiste nel trasferire con le mani la sabbia da un mucchio che ciascuna donna ha dinanzi a sé al mucchio che sta di fronte alla donna che si trova alla propria destra. Per giorni queste donne trasferiscono la sabbia da un mucchio all’altro, in un assurdo gesto circolare che riporta più volte la stessa sabbia dinanzi alla stessa donna.

Questa la massima afflizione imposta ai deportati. E Franz Stangl, ex comandante di Treblinka, intervistato dopo la guerra, al giornalista che gli chiede per quale ragione a quegli uomini, che sarebbero stati comunque uccisi, venisse inflitto un sovrappiù di sofferenza e di umiliazione, risponde che la massima afflizione era funzionale alla rimozione di ogni sentimento di pietà e di compassione umana nei soldati addetti all’eliminazione fisica dei prigionieri. Dunque, anche il principio di massima afflizione rispondeva a una logica di lucida ed efficiente pianificazione organizzativa dell’annientamento fisico dei deportati. Male assoluto. Impossibile, se non fosse accaduto. Indicibile, se non avessimo faticosamente trovato le parole per dirlo.

Il punto di resistenza che voglio proporre alla vostra riflessione ce lo offre Giovanni Giovannini, che è stato giornalista, direttore e presidente de “La Stampa” di Torino. Nel 1943 Giovannini è militare dell’esercito italiano; l’armistizio lo sorprende in Francia, dove viene catturato dai Tedeschi e inviato in un campo di internamento in Germania. La vicenda è narrata in un diario scritto su un quaderno dalla copertina nera, che Giovannini solo qualche anno fa ha accettato di pubblicare. Il testo, intitolato Il quaderno nero, si ricapitola e si rivela in un punto. Nell’aprile del 1945 l’autore, internato a Volkertshausen, viene curato da una giovane prigioniera ucraina, Larissa, 20 anni, travolta dalla guerra quando era studentessa al primo anno di Medicina e per questo motivo utilizzata dopo la cattura come infermiera nei campi di internamento. Tra Giovannini e Larissa nasce un amore tenerissimo e tenacissimo. Ecco il punto di resistenza al male assoluto: la naturale attrazione tra un uomo e una donna, che in un solo istante dissolve la trama di violenza che governa l’universo concentrazionario. I due non conoscono nulla l’uno dell’altra, parlano lingue diverse, vengono da storia diverse e incomponibili, vivono all’interno di un sistema che mortifica l’espressione del sentimento amoroso e annulla le prospettive. Eppure si amano intensamente.

Il crollo del regime nazista, l’avanzata degli Alleati, la fuga verso l’Italia separano Giovanni e Larissa. I tentativi di Giovannini di ritrovare la donna amata si rivelano frustranti. Soltanto all’inizio del ’46 una comunicazione dalla Germania informa l’uomo della sorte di Larissa. Una sorte condensata in un participio passato: erschossen, fucilata. Da chi, non si sa: forse tedeschi, forse sovietici. Ma il punto di resistenza non si dissolve: per sessant’anni Giovannini, prestigioso giornalista, editore e intellettuale, conserva nel portafogli il biglietto sgualcito con l’ultimo appunto di Larissa, che si rammarica di non avere potuto seguire l’uomo che amava. Il punto di resistenza è sopravvissuto per sessant’anni alla dissoluzione dell’odio concentrazionario al quale si era vittoriosamente opposto; ha dato senso, valore e significato a un’intera, prestigiosa esistenza. Larissa ha continuato a vivere in Giovanni Giovannini.

L’amore della giovane infermiera russa, che la risacca della guerra ha portato a morire nel cuore della Germania, resta vivissimo nella nostra memoria. E riscatta integralmente l‘umiliazione estrema delle donne in cerchio a Treblinka. Queste donne hanno vinto per noi l’orrore indicibile del nazismo.

Claudio Zanotti, sindaco di Verbania

Verbania-Fondotoce, Casa della Resistenza

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27 gennaio 2007. Orazione in memoria di Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume

In questa giornata davvero “memorabile” – e cioè che deve essere dedicata all’esercizio della memoria, perché sessantadue anni fa in queste ore le avanguardie dell’Armata Rossa varcavano i cancelli di Auschwitz ed entravano nel campo già abbandonato dai soldati tedeschi – il mio intervento dismetterà volutamente i toni dell’orazione ufficiale e vestirà quelli di una riflessione, di una meditazione intorno alla figura di Giovanni Palatucci, giovane funzionario di polizia morto nel campo di Dachau nel febbraio del ’45, alla cui memoria la Questura del Vco e il Comune di Verbania hanno voluto dedicare tre anni fa questo lungolago. E la mia riflessione, che non ha certo la pretesa di tracciare in maniera completa la biografia di un uomo di cui la Chiesa sta per riconoscere le “virtù eroiche”, si articolerà in tre momenti, scanditi dalle tre località all’interno delle quali s‘è consumata – nel volgere breve di otto anni – la parabola umana e professionale di questa limpida e straordinaria figura di cristiano: Genova, Fiume, Dachau. A lui va oggi la nostra memoria; egli rappresenta infatti uno di quei mille e mille “punti di resistenza” che in tutta Europa si oppongono con gesti semplici e umani al “male assoluto” del nazismo. Come le donne di Treblinka, come la giovane infermiera Larissa, tenacemente amata da un militare italiano internato in Germania che qualche giorno fa alla Casa della Resistenza ho ricordato ai giovani delle nostre scuole superiori. A loro siamo debitori della possibilità di guardare nell’abisso del nazismo senza smarrire il senso dell’umano.

A Genova Palatucci giunge alla fine del ’36, giovane funzionario di Polizia, dopo una laurea in Giurisprudenza  e un tentativo di intraprendere la carriera forense. Bastano pochi mesi di prima assegnazione e Palatucci, che ha solo 27 anni, con naturale immediatezza e sincerità (e probabilmente con una certa dose di inconsapevolezza) esprime pubblicamente dalle pagine di un periodico locale una valutazione fortemente critica sull’organizzazione e il lavoro della Polizia di Stato: individua in un mix di autoritarismo, burocratismo e lassismo il limite di un Corpo che è sì votato alla sicurezza dei cittadini, ma che un regime dittatoriale e illiberale come quello fascista piega alla tutela di interessi che non sono quelli di una comunità libera e democratica. L’articolo, che esce nel luglio del ’37, si chiude con un doppio auspicio: che la Polizia torni a operare in mezzo alla gente, cessando di essere una “polizia della polizia”. La presa di posizione non passa inosservata e Palatucci viene immediatamente dichiarato inaffidabile e destinato per trasferimento alla Questura di Fiume: provincia periferica, difficile, multietnica e plurilingue, di recente acquisizione. Una destinazione “punitiva”, concepita per colpire un giovane funzionario che ha precocemente manifestato la sua “disorganicità” alla polizia di regime. Ed è proprio questa netta e precoce presa di posizione, pagata con un trasferimento sanzionatorio, a dirci che in Palatucci vive un’Italia “altra” rispetto a quella fascista; vive in Palatucci l’Italia minoritaria ma irriducibile degli antifascisti esuli e incarcerati. Vive nel giovane Palatucci l‘Italia che risorgerà il 25 aprile del ’45.

Alla fine del ’37 Palatucci è a Fiume, Ufficio Stranieri. Lì resterà sino al settembre del ’44, quando la Gestapo lo arresterà come artefice della salvezza di migliaia di profughi, in larga prevalenza ebrei. Nel ’38 entra in vigore la legislazione antisemita voluta da Mussolini e immediatamente Palatucci inizia la sua sistematica opera di “dis-organizzazione” dell’Ufficio a lui assegnato: non riconosce infatti alcuna legittimità a una norma che discrimina gli Italiani in base alle origini e con grande naturalezza e lucidità vi si oppone nella quotidiana pratica di conduzione del suo ufficio.  A beneficiarne non sono soltanto gli ebrei italiani sottoposti alle vessazioni della legislazione fascista, ma anche i profughi ebrei dell’Austria, nel ’38 annessa al Reich tedesco. Nell’aprile del ’41 Germania e Italia dichiarano guerra alla Iugoslavia e nei mesi seguenti nuove masse di profughi ebrei sloveni, croati, serbi cercano salvezza muovendo verso le località italiane dell’Istria e della Dalmazia. A Fiume molti troveranno Palatucci, infaticabile organizzatore della loro salvezza attraverso la produzione di documenti falsi, la pianificazione di trasferimenti in Italia, l’attivazione di una rete di solidarietà in grado di dare assistenza e ricovero in attesa che si aprisse una via di fuga. Un lavoro meticoloso e sistematico che muove in direzione esattamente opposta a quella voluta da Roma; e ciò non sfugge agli ispettori del Ministero dell’Interno, che nell’estate del ’43 rilevano che l’Ufficio Stranieri, retto da Palatucci, è male organizzato, non conserva i fascicoli personali, non aggiorna le schede, non trasmette i dati. Santa dis-organizzazione lucidamente voluta da Palatucci! La nota di demerito dell’ispettore fascista è la più bella e convincente testimonianza della nobiltà del lavoro di Giovanni Palatucci!

Nel settembre del ’43 inizia il periodo della resistenza estrema. Un anno intero di lavoro drammatico, intenso, difficile, rischioso. L’armistizio dell’8 settembre consegna le terre italiane del Friuli, dell’Istra e della Dalmazia all’Adriatisches Kustenland: un territorio sottratto alla sovranità italiana dai tedeschi, che lo occupano militarmente e lo governano con un’amministrazione civile direttamente dipendente da Berlino. Fiume è italiana per il diritto internazionale, tedesca per la fattualità della guerra in corso, repubblichina nelle intenzioni del neocostituito governo di Salò, iugoslava nelle aspirazioni dei partigiani titini che si organizzano per la resistenza ai nazisti. L’amministrazione civile italiana si squaglia: tra ’43 e i primi del ’44 solo Palatucci e pochi fidati collaboratori restano ai loro posti. Il giovane funzionario dell’Ufficio Stranieri diventa a 34 anni Questore reggente dopo la fuga del titolare della sede. Nella dissoluzione di ogni forma di autorità riconoscibile e riconosciuta, Palatucci intensifica l’azione che costituisce il senso della sua permanenza a Fiume: salvare vite umane: “Dite agli amici che fin tanto che sventolerà quel tricolore sulla Prefettura, io rimarrò al mio posto”. Così dice a chi lo consiglia di mettersi in salvo; e in verità Palatucci a Fiume resterà anche dopo la rimozione del tricolore, che i tedeschi impongono perfino ai soldati repubblichini (i quali peraltro supinamente accettano) loro alleati. E’ di questi mesi il contatto con i patrioti del CLN italiano di Fiume, all’interno del quale Palatucci sarà noto con il nome di “dr. Danieli”.

Nella tarda estate del ’44 Palatucci accompagna Mika Eisler, probabilmente la sua fidanzata, e la madre di lei in Svizzera. Ma rinuncia a fermarsi con loro, nonostante le molte e forti insistenze. Ritorna a Fiume e lì viene arrestato dalla Gestapo la notte del 13 settembre. A Trieste è processato e condannato a morte dai nazisti per avere nascosto e favorito la fuga di cittadini ricercati e per avere intrattenuto rapporti con il nemico. La condanna viene, per intercessione del console svizzero, commutata in carcerazione in un campo di concentramento, quello di Dachau. Palatucci cessa di parlarci; la fase finale della sua vita è contrassegnata dal silenzio, sino alla morte per tifo petecchiale il 10 febbraio del ’45. Ma la sua voce ci raggiunge ancora una volta sulla banchina della stazione di Trieste. L’appuntato Capuozzo, collaboratore del questore reggente, viene a sapere che Giovanni Palatucci si trova su un treno piombato in partenza per Dachau. Corre pertanto alla stazione per vederlo e salutarlo, ma i vagoni sono ormai chiusi. Allora Capuozzo percorre avanti e indietro la banchina parlando a voce alta con un amico, in modo che Palatucci lo possa udire e riconoscere.  E così accade: da un vagone s’ode la voce del questore: “Capuozzo, porta questo biglietto all’indirizzo indicato e di’ alla madre che il suo ragazzo è su questo treno in partenza per la Germania”. Un biglietto sgualcito cade da una fessura del vagone: le ultime parole di Palatucci sono per gli altri. Sono per la madre del ragazzo suo casuale compagno di viaggio, perché sappia almeno ove è diretto il figlio.

Genova, Fiume, Dachau. Accanto ai tre luoghi, tre oggetti per fissare nella nostra memoria il ricordo e la testimonianza di Giovanni Palatucci: un pentolone fumante, un biglietto sgualcito, una stoffa rossa. Il pentolone fumante stazionava in permanenza nell’ufficio del dr. Scaraffia, collaboratore di Palatucci; ma non serviva per cucinare. Sopra il pentolone venivano messe le buste con le lettere prelevate in Posta: il vapore determinava lo scollamento delle buste che, aperte, venivano esaminate. Tutte quelle che contenevano delazioni e segnalazioni destinate a mettere a repentaglio la vita di altre persone venivano puntualmente registrate, richiuse e rispedite – “rallentate” – all’inoltro postale. Ma subito Palatucci provvedeva ad informare le famiglie coinvolte perché fuggissero. Il biglietto sgualcito l’abbiamo già visto scivolare dal vagone piombato: è l’ultima, vivida testimonianza della grandezza morale di Palatucci. Un testimone racconta l’arrivo del questore a Dachau: lì dismette la sua identità personale e viene marchiato come numero: matricola 117826. Sul petto gli viene applicato un triangolo di stoffa rossa: prigioniero politico. Ridotto a numero e a cosa discriminabile solo dal colore del triangolo. Ma il numero 117826, stoffa rossa, sconfigge i suoi persecutori: oggi Giovanni Palatucci è Giusto delle Nazioni, Medaglia d’Oro al Valore Civile, Servo di Dio.

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Chiudo qui la mia riflessione in tre momenti. E la chiudo con un rammarico e un auspicio. Il rammarico deriva dal fatto che solo di recente lo Stato italiano ha riconosciuto la figura dell’ultimo Questore di Fiume. Negli anni ’50 il padre di Palatucci, Felice, avanzerà istanza per il riconoscimento dell’eroico comportamento del figlio: la burocrazia ministeriale risponderà con ottusa insensibilità e solo la testarda e cocciuta determinazione della comunità ebraica consentirà a partire dagli anni ’60 la riscoperta e la giusta consacrazione della figura del Questore. L’auspicio riguarda invece la Polizia di Stato. La figura di Palatucci è un esempio altissimo di dedizione alla nazione, intesa come comunità umana che va servita non secondo la logica dell’obbedienza cieca alle leggi dello Stato. Se lo Stato è autoritario, dittatoriale, illiberale, l’obbedienza non è dovuta; anzi, bisogna avere il coraggio di rifiutarla. Palatucci, il funzionario che distruggeva i documenti, falsificava i certificati di identità, smarriva i fascicoli ci dice cosa significa essere uomo di Polizia nel tempo della guerra e della dittatura. Le note di demerito a nome di Palatucci Giovanni, funzionario dell’Ufficio Stranieri della Questura di Fiume, descrivono invece la sua gloria.

Claudio Zanotti, sindaco di Verbania

Verbania, Lungolago Palatucci

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