4 Novembre. Festa dell’Unità d’Italia

4 novembre 2007

In questo giorno, che celebra l’89° anniversario della fine della prima guerra mondiale, aggiungo il mio saluto a quello del Presidente della Provincia a tutti voi che avete voluto – con la vostra consapevole presenza – onorare la ricorrenza della Giornata delle Forze Armate e dell’Unità della Nazione. Innanzitutto il mio saluto raggiunga i numerosi cittadini che, nella forma democratica e repubblicana attraverso cui si regge la nostra nazione, sono i veri depositari della sovranità popolare e il cui consenso soltanto legittima l’azione e la presenza di noi che rappresentiamo l’ “autorità”; e alle autorità – locali, provinciali, regionali, statali – vada il mio ringraziamento per una vicinanza che conforta e rassicura non soltanto il Comune di Verbania, ma anche le numerose rappresentanza delle associazioni d’arma, combattentistiche e partigiane che rendono visibile e intenso il legame con i soldati caduti sui campi di battaglia nel ’15-’18 e che oggi di fronte a questo monumento intendiamo ricordare.

E proprio da questa lapide monumentale, qui deposta più di ottant’anni fa e che reca incisi i nomi dei cento giovani pallanzesi caduti, vorrei muovere per questo breve intervento commemorativo. Il fluire dei decenni – e sono ormai molti! – interpella incessantemente ciascuno di noi sul significato di questa ricorrenza; ed in particolare ci interroga il significato di questo luogo ad un tempo fisico e simbolico, di questa lapide di fronte alla quale ogni anno a partire dal 1923 le istituzioni municipali e la comunità si ritrovano. Questo luogo mantiene, a dispetto dei tempi e della tentazione della dimenticanza, un’eloquenza viva, cui le diverse contingenze storiche hanno via via attribuito un’enfasi diversa. Non è difficile immaginare negli anni immediatamente seguenti la fine della grande guerra la presenza qui, su questo lungolago di struggente bellezza, delle madri, delle mogli, dei congiunti di questi cento giovani caduti; il ricordo dolente e vivo dei loro volti e dei loro nomi riempiva naturalmente di senso e di valore quelle giornate commemorative. Di questo luogo si impossessò poi per un ventennio la retorica fascista del regime, con gesti eclatanti attraverso cui si affermava la glorificazione di quell’immane tragedia che fu la prima guerra mondiale per fini ideologici, per alimentare un sentimento nazionalistico che avrebbe posto le basi per altre e ancor più spaventose tragedie che il Novecento ci ha consegnato. Qui sono venuti nei decenni i reduci di quella prima, grande guerra, per fare memoria dei loro compagni non più tornati e per cercare di comprendere il senso di una vicenda così grande e così tragica. Nella nuova Italia libera e repubblicana questi cento nomi hanno accompagnato la riflessione sulla lacerante esperienza della sconfitta militare del secondo conflitto mondiale e sul doloroso e sanguinoso riscatto della nostra libertà conseguito attraverso la Resistenza al nazifascismo. In anni a noi più vicini, grazie ad un’intensa ricerca storiografica sui fatti del ’15-‘18 e alla nuova sensibilità sovranazionale gradualmente affermatasi in Europa, in questo luogo ha preso corpo un giudizio severo su una guerra che si è risolta in uno spaventoso e incomprensibile massacro per la conquista e l’affermazioni di confini geografici che l’evoluzione della sensibilità europeista ha  reso obsoleti e irreversibilmente superati. Ed infine, in anni recentissimi e grazie al magistero istituzionale dei Presidenti Scalfaro, Ciampi e Napolitano, il senso di questo luogo si è profondamente radicato nel recupero autentico e vero del valore dell’unità della Nazione e dell’esercito come manifestazione di un popolo libero, democratico e sovrano.

Ma se diversa è stata l’enfasi che ha accompagnato il nostro ritrovarsi per oltre ottant’anni in questo luogo, questo stesso luogo rischia oggi di essere percepito come muto, silente, estraneo all’attualità della nostra convivenza sociale e civile. Per stornare questo rischio dobbiamo allora tornare a piegarci e a interrogarci su questi cento nomi, se è vero che mai nella nostra storia di comunità è accaduto che tanti e tanti giovani siano stati così drammaticamente sacrificati nel massacro cruento della guerra. Chi sono costoro, i cui nomi tanto dicono delle storiche famiglie della Pallanza dell’800 e del ‘900? Per quale ragione sono morti? E quale consapevolezza avevano del sacrificio estremo cui andavano incontro? E ancora: quale attualità mantiene questo sacrificio?

Questi cento giovani uomini non vanno ricordati come eroi. Fu troppa la sofferenza, troppo il dolore, troppa la mortificazione, troppa la rabbia che possiamo immaginare essi provarono per il destino oscuro, indecifrabile e incomprensibile che si accingeva a ghermirli. Non vogliamo ricordarli come eroi, ma come testimoni. Testimoni di una dedizione estrema e sincera alla patria, e non certo una patria astratta e ideologica, bensì una patria che per loro era visibile e leggibile nella comunità di appartenenza, nella comunità di Pallanza, nei volti e nei nomi delle loro madri, delle loro mogli e dei loro figli. Una patria che avrebbero voluto servire in molti anni di dedizione operosa e che fu loro strappata dall’insensatezza della guerra. Ma questi cento giovani restano ancora oggi eloquenti testimoni di una tragedia – quella della prima guerra mondiale – che si rivelò rovinosa ed esiziale per l’Europa e che fu l’avvio – come confermano anche le più recenti e suggestive interpretazioni storiografiche – di una nuova e tremenda “guerra dei Trenta Anni” che, come quella combattuta nel cuore del XVII secolo, dal 1915 al 1945 sconvolse dalle fondamenta il nostro continente.

E anche solo per questa duplice, eloquente condizione di testimoni, a questi cento giovani uomini non manchi mai la riconoscenza e la venerazione delle istituzioni e dei cittadini.

Claudio Zanotti, sindaco di Verbania

Verbania-Pallanza

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