Partito Democratico. Congresso provinciale 2010

RIFLESSIONI IN PREVISIONE DEL CONGRESSO PROVINCIALE DEL PARTITO DEMOCRATICO DEL VERBANO CUSIO OSSOLA

Qualche settimana fa alcuni iscritti che avevano – insieme a me – sostenuto lo scorso anno la Mozione Franceschini, mi hanno chiesto di rendermi disponibile per assumere l’incarico di segretario provinciale del Partito Democratico. A loro ho risposto affermando che un’ipotesi di questo tipo non aveva per me significato all’interno di un confronto/contrattazione tra le Mozioni derivate dalle primarie dello scorso anno per la scelta del segretario nazionale: troppo mutato il quadro politico anche interno al Pd nel corso dell’ultimo anno; troppo grave la situazione del partito per essere affrontata con gli strumenti e le chiavi di lettura derivati dalle primarie per la segreteria nazionale; troppo sfilacciato e compromesso il profilo del partito anche sul piano provinciale dopo le tornate elettorali del 2009 e del 2010. E le convulsioni del Pd nazionale nell’ultimo bimestre mi confermano in questa convinzione.

Ho comunque ritenuto opportuno – anche in considerazione della stima e dell’apprezzamento che hanno accompagnato la proposta di spendermi per la segreteria provinciale – esprimere alcune valutazioni sulla situazione politica nazionale e provinciale e sulle ormai indifferibili decisioni da assumere per mantenere vitale e competitivo un partito nato tre anni fa con l’ambizione di affermare una “vocazione maggioritaria” derivata dalle migliori tradizioni riformiste della storia politica nazionale e scivolato oggi ad un consenso stimato in circa un quarto dell’elettorato.

Queste valutazioni sono state confrontate in queste ultime settimane anche con i rappresentanti delle due mozioni che sul piano provinciale si riconoscono nei documenti del “Partito del Noi” e del Partito “Democratico per davvero”. Dopo l’assemblea degli iscritti del 24 settembre a Pieve Vergonte ho ritenuto di dare a quelle stesse valutazioni una veste scritta, che ne faciliti – per chi lo ritenesse utile – la conoscenza e la diffusione.

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Come ho avuto modo di dire anche a Pieve Vergonte il 24 settembre durante l’Assemblea provinciale, io non esprimo alcuna “delusione” per lo stato in cui si trova il partito. Nella mia ormai ultratrentennale militanza politica, ho sempre considerato il partito nel quale di volta in volta ho liberamente e convintamente scelto di militare (la Dc, il Ppi, la Margherita, il Pd) una cosa che trascende e supera la mia personale vicenda biografica. Sono debitore al partito di tutto quello che mi è riuscito di fare e di realizzare nel corso della mia vita pubblica: al di fuori della militanza politica in un partito di respiro nazionale (non ho mai avvertito il fascino e la seduzione delle liste civiche o localiste) non avrei potuto né saputo esercitare dignitosamente le responsabilità amministrative e istituzionali anche importanti che mi sono toccate. Da me non sentirete mai una parola di critica verso il partito che non sia mossa dalla passione di vederlo migliore e più adeguato alle sfide cui deve corrispondere. Quando poi il partito non dovesse più corrispondere alle mie idealità, lo lascerei in silenzio al primo rinnovo di tessera. E fuori dal partito per me non ci sono né ci saranno “incarichi tecnici” o “responsabilità istituzionali”; fuori dal partito c’è stata e ci sarà soltanto la mia vita privata e professionale.

Mai come ora però il Pd misura la vicinanza al “punto di non ritorno” oltre il quale si certifica il fallimento della scommessa del Lingotto. L’irrilevanza nell’opinione pubblica delle nostre posizioni politiche e programmatiche negli stessi giorni in cui si consuma la crisi irreversibile del “partito del predellino”; le contraddizioni emerse nel corso della festa nazionale a Torino (fischi a Marini e applausi a Di Pietro; ovazione per Vendola e solo applausi per la Bindi; contestazioni a Bonanni…); l’aggressività o la forte critica nei confronti del Pd da parte degli altri esponenti del fronte antiberlusconiano (Di Pietro, Grillo, Vendola); la freddezza crescente di Casini al corteggiamento di chi nel Pd lavora per un nuovo centro-sinistra (please, notare il “trattino”); il malessere esplicito di importanti segmenti del partito (veltroniani, fioroniani, ex rutelliani, liberal): tutto concorre a certificare un’accelerazione della crisi del partito che ancora nel recente passato ha vissuto passaggi analoghi (fuoriuscita di Rutelli e di alcuni esponenti dei cosiddetti “teodem”).

Questa faticosa navigazione a elevato rischio di naufragio trova però la sua prima ragione nell’esito delle elezioni politiche del 2008; e ciò non tanto per la mancata vittoria, quanto per la mancata conquista di consensi nell’elettorato di “centro”, che Casini per un verso e l’(allora) coppia Berlusconi-Fini per l’altro hanno saputo mantenere entro i confini dell’Udc e del PdL. Il confortante 34% conseguito allora dal Pd è stato il risultato del cosiddetto “voto utile” drenato alla sinistra radicale e non dell’apporto di nuovi elettori strappati al centrodestra. Eppure questa era la vera scommessa del Pd: si potevano anche perdere le elezioni (come di fatto si sono perse), ma il non aver conquistato un solo voto allo schieramento avversario ha immediatamente rivelato il fallimento della strategia fondante del Pd. Da quella sconfitta sono poi derivate altre scelte che oggi, a tre anni di distanza, possiamo definire non propriamente convincenti: ad esempio, la riedizione della strategia dalemiana del centro “TRATTINO” sinistra oppure quella della forte caratterizzazione “laica” e “di sinistra” del Pd, sostenuta da quanti nel partito tornavano a guardare a forme di strutturale collaborazione politica con i tronconi della sinistra radicale, del dipietrismo, del movimentismo “grillino”.

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Sul piano locale abbiamo potuto sperimentare in maniera forse più plastica ed evidente la  crescente disaffezione di un elettorato che nel 2007 aveva accolto con entusiasmo la proposta del Lingotto e che – uscito stordito dalla sconfitta del 2008 – in questo triennio s’è gradualmente e silenziosamente allontanato da un partito sempre più avvitato sull’eterna precisazione del suo profilo identitario e fondativo e sull’infinita discussione delle migliori alleanze da praticare per vincere questa o quella tornata elettorale (peraltro, tutte perse: Abruzzo, Sardegna, Sicilia, amministrative, europee, regionali..). A me pare che sia evaporato pressoché completamente il popolo del “nuovo Pd”, quello – per intenderci – che ha affollato nell’estate-autunno del 2007 le sale dove si tenevano le assemblee per la costituzione dei nuovi circoli. Centinaia, migliaia di persone che nelle nostre città e nei nostri paesi si sono presentate alle assemblee, ai gazebo delle primarie e che oggi (e da tempo) non si vedono più.

L’evaporazione del popolo del “nuovo Pd” è coincisa con la graduale ri-strutturazione del partito secondo una logica di continuità (nei modelli organizzativi e molto stesso nelle persone) con la prassi che caratterizzava i due maggiori partiti precedenti, Ds e Margherita. Io non esprimo un giudizio di merito su questo modello e su questa prassi: li conosco, li ho praticati e credo che abbiano avuto senso. Tra le numerose e (sulla carta)  dirompenti novità della nascita del Pd vi era anche quella di superare quel modello di organizzazione del partito, come vi era quella di limitare il numero di mandati ai parlamentari. E infatti s’è visto come è andata.

Accanto all’evaporazione del “nuovo popolo” e all’affermazione del “continuismo organizzativo e decisionale”, io aggiungerei una terza ragione di crisi e di debolezza del nostro partito provinciale. E cioè l’affermazione del cosiddetto “doppio livello” del partito. Ovvero un primo livello popolato di iscritti, militanti e amministratori “di base”: una simpatica squadra di badilanti e di bravi ragazzi da impegnare nelle feste estive, nell’allestimento di qualche gazebo, nell’organizzazione della cena “di autofinanziamento”, nell’attacchinaggio dei manifesti, in qualche sporadico volantinaggio al mercato; e poi un secondo livello di dirigenti con impronta di politica professionale svolta a tempo pieno, impegnati a decidere su poche e ben definite questioni: contrattazione con i livelli regionale e nazionale del partito per le designazioni “di peso” (Camera e Senato, listini, assessorati regionali..); indicazione di nominativi per gli incarichi di “secondo livello” (da noi, sostanzialmente la galassia Saia); rapporti e relazioni informali con i rappresentanti di vertice del PdL per gestire (a prescindere dal fatto di essere noi maggioranza o – come ora – minoranza) scelte “di potere”. Badate, io non affermo che questa rappresentazione è perfettamente corrispondente alla realtà. Ma so per certo che la maggior parte dei nostri iscritti, dei nostri militanti e una parte non irrilevante dei nostri elettori la ritiene assolutamente vera. Dunque è vera.

Un quarto fattore di crisi del Pd provinciale risiede nella sua tendenziale condizione di partito schizofrenico. Siamo cioè un partito che oscilla pericolosamente e reiteratamente tra consociazione e opposizione. Diciamo che la nostra base ci chiede oggi un profilo di netta opposizione, di forte contrapposizione a una classe politica di Destra e Lega Nord che nei Comuni, in Provincia e da qualche mese in Regione amministra e governa in maniera intollerabile. E se qualcuno questa linea la interpreta in maniera molto netta (ad esempio il sottoscritto, che su questioni non solo verbanesi ma anche provinciali settimanalmente incalza Destra e Lega Nord con un lavoro informativo e controinformativo piuttosto caratterizzato), non così si può dire di tutto il partito e a tutti i livelli. Anzi, nelle viscere del nostro partito c’è la sensazione che la nostra opposizione non sia abbastanza profilata, abbastanza pungente, abbastanza agguerrita, abbastanza intransigente. C’è la sensazione che la tentazione consociativa o “inciucista” sia sempre in agguato, visto che l’abbiamo in diverse occasioni ben praticata quando eravamo noi maggioranza politico-amministrativa in questo territorio.

Un quinto fattore rivelatore di crisi e poi chiudo. A me pare che noi si stia diventando un “partito di singoli”. Nel Vco si fa fatica a “vedere” il Pd; è più facile “vedere” Zanotti a Verbania, Reschigna in Regione, Grieco in Provincia, Borghi sulle politiche della montagna o in Tecnoparco. In altre parole, l’azione del partito, passando ormai attraverso le iniziative ISOLATE di singoli esponenti presenti nelle istituzioni, rischia di essere percepita dal nostro elettorato e soprattutto dai nostri iscritti/militanti come la pur meritoria attività della persona che “ci mette la faccia”, ma non l’attività del partito. Così proseguendo, la nostra individuale e faticosa dedizione rischia di essere un “boomerang” e di nuocere alla crescita, alla consapevolezza, alla “galvanizzazione” dell’intero partito.

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Se le osservazioni sin qui fatte sono vere (e ovviamente a me vere sembrano!), penso che sia necessario operare una vera e propria rivoluzione nella vita del Pd. Provo a mettere sinteticamente in fila qualche idea rivoluzionaria.

Il Pd deve diventare un partito contendibile. Tutti gli iscritti devono sapere che se hanno idee, ambizione e voglia di lavorare  possono proporsi per contendere ruoli di responsabilità nel partito a coloro che attualmente li esercitano. Devono poter avere le occasioni per dibattere, per “mettersi in mostra”, per stringere relazioni, per andare alla conta. A tutti i livelli: dal Circolo all’Assemblea provinciale, alla segreteria; dalla candidatura a sindaco a quella a parlamentare regionale e nazionale.

Diventa davvero contendibile un partito di passione e non di professione. La politica deve tornare a essere una fatica e un sacrificio. Basta con gli incarichi “professionistici” a vita o a tempo indefinito. Chi si vuole spendere in politica deve avere un lavoro, un’occupazione fuori dalla politica. Deve essere libero. E quando si ricoprono incarichi importanti che impongono il “tempo pieno” (sindaco di un grosso Comune, presidente della Provincia, consigliere/assessore regionale, parlamentare nazionale), è necessario che i due/tre mandati al massimo siano intesi come una liberazione per chi li esercita. Devono essere anni di passione e di sacrificio, pagati la metà di quello che rendono oggi, privati degli scandalosi privilegi odierni (i vitalizi, i benefit, le assicurazioni..); chi fa il sindaco o il parlamentare per due mandati deve provare sollievo quando s’avvicina la cessazione dell’incarico, perché dopo dieci anni di veri sacrifici e di sobrio ma dignitoso compenso potrà finalmente dedicarsi a qualcosa di meno faticoso e impegnativo. Avrà la serena consapevolezza di “avere dato” e sentirà il bisogno vero di riposarsi, di tornare al proprio lavoro, alla condizione di privato cittadino. E intanto il partito cercherà un’altra persona disponibile a tanto sacrificio. Se il Pd non combatte una battaglia senza quartiere e sino all’annientamento del nemico contro la CASTA (e dunque, purtroppo, anche contro una parte di sé), non avrà dignità e perderà ogni titolo a rappresentare i cittadini onesti. Un partito che non sia così a me non interessa.

Un partito sta là dove lo hanno messo gli elettori: la minoranza è una funzione essenziale in democrazia e deve essere esercitata con determinazione e senza sconti o furbizie. Deve essere esercitata in maniera corale e coesa, senza derive criptoconsociative e coinvolgendo nelle prese di posizione e nella manifestazioni pubbliche tutti coloro che nel partito e nelle istituzioni ricoprono ruoli di responsabilità. Dalla consapevolezza di esercitare il mandato che gli elettori ci hanno conferito deriva la necessità che il partito sia militante: deve cioè essere presente ogni giorno nel dibattito nelle sedi istituzionali, sui media locali, nell’attività di informazione e di documentazione degli iscritti e dei militanti. Il partito deve essere “visto” e percepito presente in ogni articolazione territoriale, anche in quelle più piccole. I suoi consiglieri comunali, i suoi amministratori, i sui coordinatori di circolo devono essere riconosciuti non solo come persone stimabili e impegnate della comunità in cui vivono, ma anche come espressione autorevole e immediatamente individuabile della più vasta e rassicurante “comunità ideale” del PD.

Sono molto chiaro: il modello di un partito contendibile, senza professionismi, davvero democratico nei processi decisionali, militante, radicalmente anticasta, è agli antipodi rispetto al modello del PdL e della Lega Nord: sono questi partiti verticisti e dirigisti, gestiti su due livelli incomunicabili, incontendibili, plasmati per assicurare al proconsole locale una leadership incontrastata e indefinita, previa pattuizione di ruoli e/o incarichi con gli altri notabili. PdL e Lega sono partiti leaderistici e leninisti, nei quali si fa carriera facendo a gara a chi più ossequia il capo carismatico, la cui presenza (anche solo mediatica) assicura il presupposto per l’esistenza e la buona salute delle articolazioni periferiche del partito. Le parole d’ordine, il messaggio semplificato e ossessivo, il “mattinale” sul quale imbastire giorno dopo giorno il battage propagandistico sono assicurati dal leader carismatico e surrogano brillantemente ogni specifica iniziativa territoriale. Quello pdiellino e leghista è un modello che in quel mondo funziona, e funziona bene. Ma non mi piace. Noi abbiamo scelto il Partito Democratico nella consapevolezza che il presupposto di una democrazia sana siano partiti liberi, contendibili, non verticistici e non leaderistici: è molto più faticoso, ma non abbiamo altra via, se vogliamo continuare a essere Partito Democratico.

Non ho mai avuto particolare inclinazione per gli organigrammi da consegnare a qualche file destinato a ricoprirsi di polvere digitale. Un partito funziona nella misura in cui ciascun militante (e a maggior ragione ciascun dirigente) inizia a lavorare: in politica “lavorare” significa leggere con l’intelligenza i bisogni della propria comunità e individuarne le soluzioni, mantenere un’elevata capacità di ascolto delle persone, delle associazioni, delle categorie. Significa informare e formare. Significa elaborare e diffondere materiali. Significa scrivere e parlare. In un’ipotetica struttura organizzativa e decisionale a livello provinciale immagino un ruolo centrale per gli amministratori (sindaci, assessori, capigruppo consiliari) e per i coordinatori di circolo. A costoro deve essere affidato il compito di decidere se e con quali uomini entrare negli organi di amministrazioni di consorzi e società pubbliche. Il percorso di queste scelte (anche quella di esserci o non esserci, negli enti: non è obbligatorio starci dentro per forza) deve essere fatto secondo percorsi trasparenti; magari combattuti e contrastati, ma trasparenti. Ciò significa che non potranno esistere i “caminetti” dove i “senatori” e il “notabilitato” locale stabiliscono il chi e il dove. Né potranno esistere le contrattazioni consociative tra supposti plenipotenziari dei diversi schieramenti, cui fare seguire scelte da attribuire poi spregiudicatamente al Partito Democratico. Al segretario provinciale toccherà il compito di creare le condizioni per questo processo di trasparenza decisionale: accogliere e sollecitare candidature, consigliare le scelte più opportune, mantenere i rapporti con i nostri rappresentanti, raccogliere le informazioni sul lavoro svolto nei singoli organismi.

La scelta dei nostri candidati al vertice delle istituzioni locali va affidato a consultazioni “primarie”, alle quali chiamare a partecipare i nostri elettori. Dobbiamo però avere la consapevolezza che in una realtà come la nostra formata da Comuni piccoli e piccolissimi, ove alle elezioni si partecipa con liste civiche, il meccanismo delle primarie può risultare impraticabile o inutile; così come risulta delicato utilizzare questo strumento nel caso di candidatura per il secondo mandato di un amministratore uscente. Resta comunque il fatto che il ricorso alle “primarie” costituisce uno strumento di grande coinvolgimento popolare da utilizzare in tutte le occasioni possibili. E l’ultima parola in merito spetterà all’assemblea provinciale. Diverse sono invece le condizioni attraverso cui si determinano le candidature al Parlamento e in Regione. I rapporti con i livelli territorialmente superiori del partito sono stati spesso contrastati e frustranti. Va comunque ribadito che, fermo restando l’attuale sistema elettorale, non è più accettabile che la nostra provincia risulti sistematicamente esclusa dall’inserimento di candidati nelle posizioni di lista che ragionevolmente assicurino l’elezione alla Camera o al Senato. Questa esigenza deve essere rappresentata alla segreteria regionale perché sia accolta e garantita; ed è quasi superfluo affermare che la designazione della candidatura “territoriale” non potrà che essere espressione degli organi provinciali del partito, al di fuori dei giochi di corrente e respingendo preventivamente qualunque tentativo di imposizione esterna.

Vado infine sempre più convincendomi che, al di là dei marchingegni decisionali e degli assetti organizzativi, la funzione principale di un partito come il nostro sia quella di incontrare i cittadini per iniziare pazientemente a ricostruire un’idea di società coerente con i valori che le diverse tradizioni politiche del ‘900 hanno portato in dote al Pd nel momento della sua faticosa ma esaltante costituzione. I luoghi di aggregazione che hanno accompagnato la seconda metà del secolo scorso sono venuti meno. Non c’è più la fabbrica e non c’è più la parrocchia; o meglio: non esistono più questi luoghi nell’accezione sociologica e valoriale che avevano nei decenni scorsi. Oggi incontrare i cittadini per ragionare sulla complessità della politica e dell’economia è difficilissimo. Eppure mai come nei tempi che viviamo appare indispensabile offrire occasioni di approfondimento che vadano oltre la semplificazione ad uso propagandistico-elettorale in cui eccellono Lega e berlusconiani.

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Ma quali sono i contenuti della proposta politico-programmatica del Pd? Questo è forse il più delicato e drammatico dei problemi che abbiamo di fronte. In queste settimane mi è capitato spesso di ricordare che, se si chiede a un cittadino qualunque quali siano i contenuti essenziali della proposta della Lega Nord, non avrà alcuna difficoltà a rispondere: sicurezza, contrasto duro agli immigrati, federalismo, antimeridionalismo. E questo anonimo cittadino non avrebbe difficoltà a rispondere a domande analoghe sul PdL (meno tasse, libertà d’impresa, ordine, politica “del fare”), sull’Italia dei Valori (legalità, giustizia, antiberlusconismo), sull’Udc (famiglia e quoziente familiare, ceto medio, no al federalismo se contro il Sud). Provate a chiedere allo stesso cittadino quali siano le tre idee-forza del Pd: non saprà rispondere. E non saprà rispondere neppure il nostro elettore o il nostro iscritto; il nostro dirigente chiederebbe almeno un quarto d’ora per imbastire un articolato discorsetto. Questo è il nostro limite. Ed è un limite colossale.

Io credo che la più convincente e comprensibile proposta programmatica sia ad oggi quella che Chiamparino ci ha illustrato durante la nostra festa a Villa. Una proposta lungamente pensata da un sindaco del Nord, anche sulla base della sua esperienza amministrativa. Poiché sono stato anch’io un sindaco del Nord (si licet parva componere magnis!), la proposta Chiamparino mi è parsa molto solida e molto argomentata. Il sindaco di Torino ci indica una serie di problemi ai quali non possiamo e non dobbiamo sfuggire: la centralità dell’industria e la necessità di modificare le relazioni sindacali per evitare l’azzeramento del nostro tessuto industriale manifatturiero; l’immagine di un Pd percepito come campione della conservazione nella tutela di alcune categorie più garantite (pubblico impiego, lavoratori di grandi complessi industriali, pensionati..), lasciando paradossalmente quelle meno garantite (giovani, precari, operai delle piccole imprese, partite iva..) alla Destra e alla Lega; la necessità ineluttabile di riportare la categorie del “merito” al centro di ogni processo valutativo; il malessere profondo del Nord cui il Pd non riesce a dare una risposta comprensibile, lasciando campo aperto alle demagogia leghista; l’impraticabilità di alleanze politiche con la sinistra estrema e radicale; la necessità di assumere posizioni di moderazione e di equilibrio su temi eticamente sensibili, per non perdere il consenso di significative aree del mondo cattolico; gestire il fenomeno migratorio imponendo, accanto all’accoglienza, il rispetto rigoroso delle regole. E altro ancora. Alle sollecitazioni di Chiamparino io ne aggiungerei un altro paio: lotta senza quartiere ai privilegi della Casta e all’autoperpetuazione della classe politica; lotta implacabile all’evasione fiscale, magari avviando in ogni Comune il redivivo Consiglio Tributario.

Se all’anonimo cittadino di cui sopra, alla domanda su quali siano i punti di forza della politica del Pd, si potesse rispondere subito e senza incertezze così: lotta agli evasori per costruire davvero benessere e uguaglianza; basta ipergarantiti e parassiti nei posti di lavoro a fronte di tanti precari e di tanti lavoratori malpagati; deputati e senatori a 60.000 € all’anno senza benefit e vitalizi e pensioni e buonuscite. Be’, io sarei contento.

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Consegno queste mie note ai democratici che hanno presentato le due mozioni congressuali. Li ringrazio per avermi nei giorni scorsi ascoltato e per avere condiviso non poche delle questioni qui sommariamente e parzialmente riprese. Non so se potranno mai essere utili al Pd del Vco. A me lo sono state e questo sabato pomeriggio al computer non è trascorso invano.

Claudio Zanotti

Verbania, 25 settembre 2010

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