GLI OSPEDALI DEL VCO DOPO LA PANDEMIA. CAMBIARE PAGINA di Roberto NEGRONI

Questo primo scorcio del nuovo anno ha portato un improvviso e, forse, inatteso fiorire di dichiarazioni pubbliche favorevoli all’abbandono della prospettiva del nuovo ospedale unico per un ritorno al mantenimento delle attuali sedi. Per ora le voci si sono levate soltanto a Verbania.

Considerate le ultime evoluzioni della ventennale guerriglia per la dislocazione del fantomatico ospedale unico, che ha visto il cosiddetto “baricentro” provinciale calzare scarpette e scarponi per poi slittare su fino al cuore domese dell’Ossola, può apparire lecito pensare che quel fiorire altro non sia che un banale far di necessità virtù. Oppure, che si tratti di ponderati ripensamenti in merito alla chimerica praticabilità della
soluzione unitaria, nonché di dubbi circa la sua concreta sensatezza, che un anno di pandemia ha platealmente rafforzato. O che sia la dimostrazione che, qualche rara volta, dall’esperienza si possa pure imparare? Sensate alternative, la cui discussione lasciamo ai posteri, insieme al pagamento del nostro debito pubblico.

L’analisi del think tank VERBANIAVENTITRENTA descrive invece con precisione il pesante impatto che la pandemia ha avuto sull’attuale sistema ospedaliero del VCO, le negative conseguenze per le normali attività e per le utenze, i rischi corsi, e giustamente si interroga sulle più gravi conseguenze che sarebbero scaturite nel caso il nuovo ospedale unico, destinato esclusivamente a cure ad alta intensità specialistica, fosse già operante. Coerentemente l’analisi conclude con un chiaro giudizio di inadeguatezza della
soluzione del nuovo ospedale unico di fronte alla complessità del fabbisogno sanitario del territorio e con un recupero della prospettiva già in passato sperimentata dell’Ospedale Unico Plurisede, solo parzialmente e riduttivamente attuata. L’obiettivo di realizzare una sola ma nuova struttura ospedaliera per il VCO, di dimensioni ridotte perché riservata alle acuzie, ma moderna, “a impianto specialistico e alta intensità di cura”, ha suscitato fin
dall’inizio larga approvazione e pure entusiasmi, ma subito ha sbattuto, e lì è rimasta arenata, contro l’insolubile problema della sua collocazione nel territorio. Quella prospettiva ha suscitato però anche meno rumorose ma diffuse perplessità riguardanti soprattutto l’arcano del futuro delle due sedi ospedaliere di Verbania e di Domodossola, che pareva riservare, salvo del tutto ipotetiche privatizzazioni per Verbania,
riduzioni operative prossime alla liquidazione e con l’alternativa di una sanità territoriale diffusa di là da venire. La qual cosa appariva difficilmente comprensibile e accettabile da una non trascurabile parte della popolazione di centri la cui dimensione e posizione ha da sempre giustificato la presenza di un ospedale.

La morfologia del territorio della provincia del VCO presenta caratteristiche se non proprio uniche, almeno non frequenti. Laghi e montagne sono fattori dominanti non solo il paesaggio, ma ovviamente anche la geografia antropica, con un’urbanizzazione che a sud, verso i laghi, si concentra, sia per quantità che per densità, e nel centro-nord si dirada, con la cerchia dei monti a contornare l’intera larga fascia est-nord-
ovest, cui si aggiunge l’ampia sezione montana interna del Parco Nazionale della Valgrande. L’antropizzazione non si è espansa perciò a raggiera o concentricamente a partire da nuclei originari, come avviene in territori con morfologie meno tormentate, ma lungo poche e vincolate direttrici: l’asse della litoranea lacustre del lago Maggiore, l’asse Verbania-Cusio, e quello Verbania-Domodossola. Da questi assi principali si dipartono (o confluiscono) poi le direttrici vallive: nel Verbano e nel Cusio i contigui nuclei
minori dell’entroterra collinare e le brevi valli (salvo la valle Cannobina, che breve non è), nell’Ossola le numerose vallate che di addentrano anche profondamente nelle circostanti aree montane con i loro sparsi paesi. Il grafico che segue prova a visualizzare quanto qui descritto mostrando l’essenziale, senza sfondo cartografico, ma rispettando le proporzioni.

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L’ubicazione di un unico ospedale idoneo a servire un territorio con una simile distribuzione della popolazione è oggettivamente un compito difficile. La distribuzione dei centri urbani lungo direttrici lineari che si sviluppano in direzione nord-sud per una novantina di chilometri, passa nel tratto centro-settentrionale da un territorio ossolano caratterizzato dai maggiori centri di fondovalle su cui gravitano le otto vallate circostanti per una dispersa popolazione complessiva di poco più di 50.000 abitanti; e passa nel
tratto meridionale per una popolazione addensata in brevi spazi e gravitante sui centri lacustri maggiori per un totale che supera di poco i 100.000 residenti.

Già la evidente rilevanza nella diversa dinamica territoriale di due poli gravitazionali, quello della maggiore conurbazione detta “dei Laghi” per l’area Verbano, Cusio e bassa Ossola e quello della minore conurbazione ossolana Domo-Villa-Crevola per il centro e alta Ossola suggeriscono una prevedibile preferibilità della permanenza dei due ospedali (ferma restando la presenza del C.O.Q. di Omegna). Eppure, tutti ci siamo
convinti (o rassegnati) alla bontà della prospettiva del nuovo ospedale unico. Prospettiva in verità apparsa con il passare del tempo sempre più del tutta teorica: prima a causa l’estenuante e irrisolta partita del “baricentro”, ultimamente sospesa perché gli ossolani hanno sequestrato la palla, poi, ben più convincentemente, perché la pandemia ha detto poche ma probabilmente (e sperabilmente) definitive parole in proposito.

Malgrado ciò, la via del nuovo ospedale unico ha retto fino a ieri, cioè fino quando l’urto della pandemia ne ha dimostrato i rischi e la sostanziale inadeguatezza. È però utile soffermarsi su quelli che sono i principali presupposti di questa persistenza.

Un decisivo presupposto risiede nella torsione che ha subito l’impianto della originaria legge di riforma sanitaria, la n.833 del 1978, in seguito a due eventi: il primo è il conferimento alle Regioni, con il D.Lgs.502/1992, di competenze e poteri in materia di sanità, che ha fatto venir meno il presidio del senso e dell’organizzazione di quello che era stato concepito come sistema unitario, rendendo lecite disomogeneità e manomissioni le cui conseguenze sono apparse con tragica evidenza nel corso del 2020.
Il secondo evento, ancora più grave, consiste nel radicale mutamento del fondamento concettuale del testo della Legge 833/1978: il processo di aziendalizzazione della sanità pubblica che lo stesso decreto del ’92 avviava. Una concezione dell’assistenza sanitaria (ma anche di quella sociale) che appare poco o nulla compatibile con le fondamentali funzioni che la 833 attribuiva al sistema. Una concezione in cui la spesa per la sanità diventa una variabile rigidamente dipendente del bilancio dell’ente gestore. Detto diversamente,
le attività ospedaliere (e, in genere, degli organismi sanitari nel loro complesso) non sono più da rapportare alla reale entità dei bisogni che la società locale esprime, ma devono essere compatibili alle entrate di cui l’Azienda Sanitaria Locale dispone.

Fino al ’92 questo ente era definito Unità Sanitaria Locale o Socio-Sanitaria Locale, un cambio di denominazione certo non irrilevante. Le note difficoltà degli ultimi trent’anni
dei bilanci statali e regionali, finanziatori delle Aziende Locali, hanno poi fatto il resto in termini di tagli dei trasferimenti. Da tutto ciò deriva che il ruolo promozionale esercitato dalla Regione nei confronti del nuovo ospedale unico del VCO è stato in larga misura dettato innanzi tutto dalla prospettiva di una futura riduzione dei costi di mantenimento delle due attuali strutture, più che da una soluzione attenta alla complessità del quadro territoriale.

Non va però sottovalutata anche un’altra motivazione favorevole alla nuova struttura, che con la precedente si intreccia: la giusta ambizione, sia degli enti che degli addetti e dei cittadini stessi, di poter disporre di un presidio ospedaliero d’avanguardia, di alta capacità tecnologica e professionale, capace di infondere fiducia nei cittadini e di contenere così l’oneroso pendolarismo verso altre più prestigiose strutture. Si può però nutrire qualche dubbio circa la coincidenza tra ambizione e realismo. Sembra ragionevole, infatti, supporre che una nuova struttura nel VCO, per quanto moderna e ben dotata, abbia
scarse possibilità di competere con grandi e famosi centri specialistici, dove lo scarto decisivo è determinato da un mix composto da grandi numeri, attività di ricerca che consentono continui aggiornamenti tecnico-scientifici e professionali ed elevate risorse organizzative e gestionali. Infine, a mantenere acceso per quasi vent’anni il fuoco fatuo del nuovo ospedale unico del VCO è stata anche la politica, non tutta, si intende, la cattiva politica, che non è mai mancata, quella che della questione ha fatto sempre uso strumentale alla ricerca di consenso pro domo sua, quella che ha solleticato
infaticabilmente egoismi e particolarismi, sempre alla ricerca non di soluzioni condivisibili, ma di espedienti e inconcludenti coup de theatre. Ma di questo non serve aggiungere altro.

Il definitivo abbandono di una via che per troppo tempo ha dimostrato di saper condurre a null’altro che un’esacerbante conflittualità territoriale e la convinta ripresa con serietà e convinzione dell’unica prospettiva solo parzialmente e riduttivamente ma comunque già sperimentata nel territorio, l’Ospedale Unico Plurisede, con le motivazioni e, soprattutto, le condizioni chiaramente definite nello scritto di VERBANIAVENTITRENTA, integrata da una adeguata rete di sanità territoriale può essere, con buona probabilità, la soluzione di questa estenuante vicenda. Perché se è vero che un ospedale efficiente è necessario nel Verbano, altrettanto lo è nell’Ossola. Certo, occorre che emerga decisa la capacità di
imparare dall’esperienza, quella degli anni passati, ma soprattutto quella terribile dell’ultimo anno, qui in questa provincia e, in realtà, in tutto il Paese, perché è necessario comprendere che “nel dopo pandemia il costo della sanità dovrà essere considerato sempre e soltanto un provvidenziale investimento preventivo”.

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